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Albertina Minissa

La diaspora dei pensieri

Incede in animo che tace la diaspora dei passi e dei pensieri.
Chiudo le ciglia ed abdica pudica
la mia pretesa di farsi sguardo intenso
per ciò che algore di iride non trattiene.
Tacite le garrule mie labbra
sospendono richiami funestati
come il tinnire di aquile insistente.
Prilla l'aria di luce insanguinata
mentre timida l'alba se ne fugge
e il sole infigge l'occhio come trave.
Ora sfocia il dolore in mezzo al mare
e verga d'azzurro sabbie fini addormentate
mentre s'abbrunano i sussurri degli amanti.
Ulula mentre si frange alla scogliera come grido che più non resta muto
e s'avvolge di lime e poi d'incenso
come spire voluttuose di respiri.
Tra gli anfratti di solitudine raminga
un miserere estremo d'indulgenza
in un pertugio d'amnistia concessa
si rifugia come una preghiera.
Tra zagare e limoni appesi al cielo nel rosso di arazzi di orizzonti
una ragazza di dolcezza ormai desueta
cammina a testa bassa senza meta
al ciarlare roco delle foglie
coi suoi capelli a ciocche e nastri rosa.
Si attacca ora alle sponde in un recesso mendicare il pianto.
Poi trova un chiostro riparato dalle fronde
ove il dardo lo trafigge di soppiatto
nell'incedere di un confinare tenebroso.
Efferata rivalsa della questua di denotazione sanguinaria del dolore.
Mutila e recisa l'illusione in petto si fa ansante, di nulla reo
che ostentorio si fa della pena.
Scrive poi versi crocifissi
figli della pagina bianca e di folate di solitudine.
Perché dove finisce il battito e comincia la malinconia
fluisca l'essenziale...

Critica in semiotica estetica della Poesia “La diaspora dei pensieri” di Albertina Minissa

 

Elegante, la parola profonda e ardita della Minissa affida al grembo naturale, all’anima unica del silenzio, le tormentate dinamiche d’inconscio e di coscienza, fra proiezioni e introiezioni, alla sintesi elementare, alla congiunzione degli opposti, a reintegrare le ombre del dolore, a cercare la catarsi personale e cosmica. La poetessa affronta il quadruplice calvario mortificante della croce materiale, nel cammino oltre la morte, per la liberazione della quintessenza, del respiro unitario ed essenziale.

E ci siamo detti addio

E così ci siamo detti addio. Amaro ora è il silenzio,

mentre rimuovo pietre e frasi sparse lungo i miei passi.

Pallide emozioni assorbono residue trame di turbamento

e placano vecchie braci.
Vorrei poter ancora suggere dai tuoi occhi le immagini proibite di un tempo lontano,

ma il battito delle tue ciglia ha ormai chiuso il rosso sipario dell’ultimo atto.

A passi di danza ora scivolano emozioni

che come petali di rosa spargo negli spazi del tuo ignoto incedere,

mentre il respiro è anelante come dardo infuocato.

Tra vecchie foto ingiallite il ricordo partorisce dolore.

Intanto sui fianchi del tempo si sospendono briciole di poesia

che indugiano su alberi di origami

mentre luci fatue punzecchiano l’orizzonte come fuochi d’artificio privi di vitale ebbrezza.

Vago verso altri destini perché le tue braccia più non mi contemplano.

So che non tornerai più

ma non puoi impedire alle mie rughe di percepire ancora il profumo di te,

prossimo alla linea del mio corpo disteso.

Oggi, in un tramonto rosso sangue, alle soglie di un autunno malinconico,

si liquefa l’emozione in stille di lacrime.

L’assenza delira come un grido malinconia di note

mentre il mistero della fine rilascia la sua resa sulla sabbia imbrunita

che accoglie le onde del tempo stremate dalla banalità dell'umano divenire.

Il tempo tiranno restituisce le virginee conturbanti vertigini

e le prime carezze proibite. Ormai stanca, sulla soglia,

rivedo la tua immagine allontanarsi impietosamente.

Puntino colorato all'orizzonte vai cercando un nascondiglio segreto.

Tutto è compiuto. Non ci sarà un altro ciak in questa impietosa sceneggiatura.

Voci bianche suonano mute gli accordi dolorosi dell'anima folle d’amore.

Come monade la mia anima nomade ripercorre strade alberate.

Si trascina a colpi di frusta

come carovana alla ricerca di quella libertà che dà vertigine.

Pellegrina di emozioni, negate, smarrite, alla ricerca forse del nulla immoto

nel tempo che ignaro scorre oltre i confini del limite.

Dolce e crudele ora è stordirmi nelle stanze dei ricordi,

tra le rugiade appese ai filari. Spesso sono andata in frantumi

ma ho insegnato ai cocci a non far rumore...

Critica in semiotica estetica della Poesia “E ci siamo detti addio” di Albertina Minissa

 

Epistolare, la parola amante della Minissa mesce impermanenza ed eternità, sulle linee del sentimento dell’amore perduto. Nel dolore la poetessa contiene l’incontenibile opposizione, in sintesi, di caduca fragilità e d’incorruttibilità divina, nella nostalgia che solleva le note smarrite della presenza, che, come sola altra la morte sa fare, vince il divenire.

Inesorabile finitudine

Nella latenza della fine

m’avvolgono irrorati tormenti.

Alita il libeccio tra tempeste di zolle

sui selciati dell’inganno

mentre un dolore garrulo

gronda dallo sguardo.

Erro nell’entropia del disagio

e l’attimo si fa crepa e caligine di cenere.

Io, cresciuta tra gli abbandoni

tremo le labbra di sillabe di silenzio

mentre sedimento dune di memoria

prigioniera delle sue malie.

Mi stringo tra bagliori d’ignoto

nel triste pastrano

come iato dell’ultimo abbraccio

refuso di immagini antiche

come in dolente ciarpame

che veste ormai nudo il giaciglio.

Fuggiasca tra le sponde del tempo

ricordi cinerei di mancanze

mi spogliano d’affetti sospesi

tra crudeli anomie grumose…

Risento tra case sparute

sciami di voci lontane.

Mentre limbica incedo

tra stanze porose di lacrime

come roveti di limpidi fotogrammi

riprovo il vuoto ordito

di scaglie di dissonanza.

M’inedia ora il tempo

intriso del lucore di vestigia

d’inesorabile finitudine

che più non nutre il palpito di un nuovo seme

ma solo l’ultimo strappo di un mesto imbrunire

che ormai corrode l’essenza.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Inesorabile finitudine” di Albertina Minissa

 

Elegante e sinestesica, la parola della Minissa ascolta profondamente la dissonante finitudine umana nel dolente bagaglio, non reintegrabile, di negazione, di differenza, di mancanza, di dolore, di distacco, di perdita, che solo l’abbraccio armonico tra provenienza e destinazione risolve all’eternità. La linearità fugace approssima all’altra notte, ferma per la catarsi del sentimento tragico.

Il coraggio di vivere

Alita di bruma silente l'afrore della resa

nel tempo agoraio di macerie e di tormento edenico.

Nei tenebrosi recessi

ricordi tarlati dalle foschie del tempo

e sterpi di mancanze si plasmano di echi arrisi.

Penombre contorte e tormentate rughe di roccia

lambiscono di crune di coraggio

le feritoie dell'ignoto..

Nelle vaghezze degli onirici anfratti

tra ibridate sembianze si stemperano immagini

che dissipano il vuoto ordito

che d'illusione si fa scimitarra.

Nella foce dell'anima

parole sottaciute

nell'oscuro frammento di un segreto

come austere scorie di ebbrezze abortite

salmodiano nell'ora che declina

mentre quasi assopita nel suo ancestrale ritmo

la vita ormai reliquia di normalescenza

si fa tramonto fecondo d'attesa

che si consegna nuda al prodigio.

Mentre sfocia in deliquio il destino

non mi sottraggo per viltade al dolore antico

e consegno gli affanni al Grande Grembo

archetipo ed origine di muto pianto

che spoglia di assenze accese vestigia di memoria.

Adagiata su vertigini d'esistere

m'attardo genuflessa proclive ad ascoltarmi

e vago sul rudere della pena, orfana di genesi,

a rimembrare umanità sommersa.

Mentre l'aria si fa pregna di livori

accarezzo l'incanutire che è ormai certezza

e nel silenzio corante dell'inespresso

mi aggrappo come ago di larice

in prece sospeso

a quell'ultimo raggio furtivo.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Il coraggio di vivere” di Albertina Minissa

 

La parola paradossale della Minissa avverte ardente il coraggio quanto più prossimo è letteralmente l’aver cuore, la vastità del petto, alla resa. La poetessa trova immagini feconde, parole sottaciute, vestigia di memoria e umanità sommersa, a vincere la foschia, il vuoto e l’assenza della vita, nell’ultimo raggio furtivo dell’oro sapienziale sull’ignoto.

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