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GALLERIA DI OPERE IN POESIA E ARTE CONTEMPORANEA
con Critiche in Semiotica Estetica di Fulvia Minetti
Alberto Pedrazzini
È stato ieri
È stato ieri.
Poteva essere oggi, domani
o qualsiasi altro giorno.
Sarebbe stata sufficiente un’ora
o solo un minuto.
Ho smarrito il senso del tempo.
Non ho più un nome,
solo un numero tatuato
sul braccio. Nient’altro.
Una presenza di ossa
rivestita di stracci.
Gli scherani mordono; non li sento.
Odo solo la voce di mia madre
chiamarmi come da bambino,
con quel nome dolce
di culla.
Stipati come acciughe,
nudi,
in cameroni grigi,
senz’aria, senza luce.
Né un grido,
neanche un lamento,
nessuna crepa nel silenzio.
Un ultimo scintillio,
smorzato in cenere,
lungo un camino scuro di caligine;
l’odore del fuoco che dorme mischiato al fumo…
Un frammento d’esistenza svanisce,
nell’aria gelida,
abbracciato a un fiocco di neve
come un batuffolo di cotone su di una ferita.
Finalmente libero
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L’è sta ‘iér
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L’è sta ‘iér.
Al pudéva èsar incö, ‘dman
ó n’àtar dé.
A saréss sta a bàsta n’ura
o ‘n minüt.
An ‘gh ò pö ‘l sentimént dal témp.
An ‘gh ò pö gnanc’an nóm
sulamént an nómar tatuà
in sal bras. Gnint’atar.
An schèltar tött pèl è òs,
vastì cun di stras da parsunér.
I suldà i sbraia cativ; a i a senti mia.
A senti sul la vuÅŸ ad mé madar
ciamaram cmé quand a s’era putlét
cun al stess nóm duls
ch’la druvava par cünaram.
Féss cmé ‘l rémmul,
nüd,
in chi camarón grìÅŸ,
séns’aria sénsa lüÅŸ.
Né ‘n sbrài,
gnànca ‘n lamént,
ansöna vèrta ‘n dal silénsi.
Na s’cióbga ‘d cua
smursàda in sénnar,
lóng an camén scür ‘d caléÅŸan;
l’udùr dal fögh mòrt mis’cià al fömm…
An frantöm ad vétta ‘l svanéss,
in dl’aria frédda,
brâsà a na falösca ‘d név
cmé ‘n pumasöl in sna frîda.
Finalmént lìbbar.
Critica in semiotica estetica della Poesia “È stato ieri (L’è sta ‘iér)” di Alberto Pedrazzini
La parola condolente del Pedrazzini, in sinestesia di presenza diretta, tenta l’incommensurabile sforzo di contenere sensorialmente un dolore irrappresentabile, che mai trova la catarsi di un senso. L’identità, che rimuova la differenza a supporto della medesimezza, non è identità. Il poeta accompagna la nigredo, che trasmuta in albedo di resurrezione, per la libertà dell’essenza.
Periferie
Oltre gli ultimi filari di gelsi
e le residue siepi di sambuco,
oltre la rustica frugalità
delle baracche sghembe
con attrezzi d’orto tenuti d’acconto,
i grandi vuoti di una pianura indifesa.
La città dispersa, che misura
lontananze in libertà di prati,
smaglia, seguendo logiche
di un pensiero unico che unisce
frammenti urbani a nastri d’asfalto.
Vie del nulla che si allungano
sul rimorso di piazze
rese vuote e inospitali,
dove i respiri, i silenzi
e anche le parole sono d’asfalto.
Fuori dall’ingannevole luminosità
dei fuochi decisionali,
dei rancori cablati,
la città sale; sale con la teatralità
di sterri, di cantieri,
bruciando tracce fisiche
e conoscenze di intere generazioni.
Con il loro stare in piedi spoglio,
al peso netto degli squarci,
qualcosa resiste e tiene vivo
il rapporto di ciò che sopravvive
alla sua stessa sorte:
capannoni dismessi, tralicci,
ciminiere, gasometri délabrés,
“tre case belle come un saluto”
che, con muta resilienza,
si affacciano su di un ponte che incombe.
Il margine è territorio di poesia,
un transito di visioni, di parole;
è luce che avanza nella città vasta,
e sbreccia sulla nudità delle cose.
Nell’incantamento breve del sogno
accende l’anima di mondi spenti
finalmente liberi di nutrirsi di vita.
Critica in semiotica estetica della Poesia “Periferie” di Alberto Pedrazzini
Aggettante, la parola del Pedrazzini sfida l’ulteriorità del confine cosciente, supera la definizione nitida, verge a margine, all’estremità, oltre il segno. È viaggio al di là dell’abito ordinario della ripetizione analogica, con movimento eccentrico al luogo rimosso e irriflesso di un senso nuovo.