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Alfonso Celestino

Fiori e inferi

Il tempo tesse il mio destino

nell’ambra del sole

nell’ombra di un’eco smarrita,

un grido impavido di una madre,

figlia discesa nella ferita della terra,

gambo di giovinezza reciso.

 

La mia innocenza fu preda

dell’inganno del Dio oscuro;

mi rese sposa di sogni sepolti

e regina dal velo di nebbia.

 

Così, si spezzò la mia vita

per un compromesso divino:

luce e buio in egual misura.

 

Nella quiete appresi il mio nome,

accettai le fiamme vigili

e la pace informe dell’abisso.

 

Il mio cuore, arillo di speranza,

nutre il ritorno dalla morte

nell’attesa del gelo che morde.

 

Nel giardino dal miele Ibleo

la natura riprende il respiro,

il grano esplode nel profumo dei fiori.

 

In eterno valico il liminale dei due regni

per vene di pietra e silenzi sommersi.

 

Sono l’icore di un’anima immortale

sono Kore, linfa e cenere del mondo,

equilibrio che sempre rinasce.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Fiori e inferi” di Alfonso Celestino

 

La parola celebrante del Celestino attinge al grembo mitopoietico, all’immagine di Persefone che reintegra gli opposti d’ombra e di luce, d’inconscio e di coscienza. È inno al ciclo imperituro della vita, dalla latenza della morte inferna alla rivelata rigenerazione in forma della natura in primavera. È la vittoria dell’eternità nella messa in opera di una verità, nuova e risorgente.

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