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Alvaro Staffa

Ecce Mater

Scinte le vesti, ed i capelli sparsi,

d’alcun desiderio ormai persa ogni brama,

gli occhi prostrati d’infinito pianto,

nella brutale ressa trascina le cadenti membra

seguendo del suo materno amore la suprema sorte.

Agli estremi orizzonti non apre più lo sguardo il cielo,

che di lontani mugugni oscura già la luce

dall’ignoto universo cupamente orbata.

Stracciati gli angosciati veli,

del dolore traspare il disperato tratto

e del volto si palesa la straziante piega

che per sempre turberà del viso il suo celeste aspetto.

Duro è il cammino da seguir sulla tragica strada

che di desolazione e sangue è tratteggiato il passo,

fino al colle di livore acceso e di cieco furore,

dove il sipario s’apre sull’ingrata scena.

S’alza incerta la croce che di scarsa forza si sostiene,

ma l’umana ferocia ben salda in terra la rincalza

rinnegando della divina pietà l’immenso dono.

Sale del figlio al cielo l’ultimo respiro,

resa l’anima al padre,

ed il materno dolore subito all’istinto si nega,

ricacciando del demonio la subdola lusinga

che odio e vendetta a Lei propone,

e per coloro che sotto quella croce delirando sono,

solleva gli occhi al cielo per chiederne il perdono.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Ecce mater” di Alvaro Staffa

 

Il verso classico, elegante e sapienziale dello Staffa è passo cadenzato di ricerca della umana partecipazione rituale al dolore del lutto filiale della madre celeste. Da una condivisione individuale, il verso del poeta trasporta al romanticismo panico di un vissuto universale, compreso e abbracciato dalle vesti e dal sembiante della natura stessa, che si abbandona anch’essa all’impulso anonimo di rabbia e di dolore, per gridata emersione a coscienza, per sublimazione. La solennità del rituale avvalora il senso della perdita, per trasferimento dell’impulso nella rappresentazione del perdono, al luogo trascendentale che presentifica: che sempre chiama in presenza divina l’assente.

Ibi nunc sum

L’ultima invocazione mi rimase in petto 

nel tragico momento dell’estremo passo:

“Mamma, non mi scordare”       

e neanche l’arma cadere

feci in tempo a sentire

che il silenzio mi avvolse

col suo drappo di nero dolore.

E fui subito croce, universo perduto,

cielo smarrito, brezza di vento,

fui pensiero di sera, preghiera.

Qual è il senso del vivere

se poi a vent’anni si muore?

Qui ora sono, ombra di una stele,

ricordo da dimenticare,

riflesso di luce lunare,

concerto di altri fratelli

in un sogno che era di vivere ed amare.

La terra umida che di me farà un fiore,

come un figlio mi accolse

e nasconde all’umano dolore

il pianto dei miei occhi

che, pur ciechi ad ogni terreno anelito,

l’orrore della guerra non potranno scordare.

Il fazzoletto che partendo vidi agitare,

raccoglie adesso lacrime di dolore

che io vorrei, ma non posso asciugare,

e quando per tutti sarà spento

il ricordo della guerra e dell’orrore,

a lei segneranno ancora il volto

al pensiero di una ferita sempre aperta   

e di un figlio che mai muore.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Ibi nunc sum” di Alvaro Staffa

 

In una dondolante melodia struggente, il verso dello Staffa trattiene con amaro incanto l’eco dolorosa del perduto, memoria eternante di un’assenza, vivida nei sensi amanti e devoti di una madre, mancante di sé nel figlio caduto. L’orrore della guerra lascia, qui e ora, imperituro nella viva contingenza dei sensi lacerati e nega, con l’esistere dell’altro, l’essere stesso dell’uomo, che non è che risultante accordo di note, derivato concerto di voci.

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