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Antonella Biunda

Nome che Arresta

Non mi recludo.

Ora, sto.

Il ginocchio

penetra la pietra.

Non in segno di preghiera.

La superficie

ruvida

delle cose vere.

Il legno trattiene

il non detto.

Fibre che tremano,

come facevo

prima di sapere.

Non sono più un margine.

Sono un confine.

Taglio chi passa,

senza ferire.

Solo per dire:

sono qui.

Tocco,

un contatto che scuote

la polvere del tempo.

E non tremo più

nel mio stesso nome.

Lo porto

come lama

che ha smesso

di chiedere perdono.

Ogni parola incisione

ogni passo un ritorno

non concesso.

È questo ciò che resta:

una carne che sa

dove il silenzio

ha urlato

come suo unico testimone.

Critica in semiotica estetica della poesia “Nome che Arresta” di Antonella Biunda

 

La parola tagliente della Biunda esprime il dolore della coscienza identitaria. Si nasce guardando il proprio essere guardato dall’altro, il nome è theatron e possiede la valenza alienante della maschera, nella funzione rituale del fenomeno del mettersi in scena. L’ente è nella luce dello sguardo dell’alterità, ma dietro la maschera freme l’ulteriorità dell’essere.

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created by Antonino Bumbica - Fulvia Minetti

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