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Davide Rocco Colacrai

Gli eterni ritorni (al poeta B., 1945)

C’era l’odore scavato delle lacrime,

l’attesa che una ferita si esaurisse in apostasia,

c’era il canto lento di una solitudine

impressa sulle labbra,

il soliloquio indefinito della guerra

all’ombra delle braccia conserte di un tiglio

a ricordare il gesto di chi ha mantenuto vivo il falò

del suo essere poeta,

non più che una radice sghemba d’uomo.

 

Impigliati alle vene del cielo c’erano sogni,

ad essi il costato ammaccato di una bicicletta in appoggio,

la croce del mondo,

l’innocenza dei monti ammorbiditi dalla neve,

e il silenzio,

come di una sospensione

tra l’addio alle armi e il vivere di nuovo e ancora,

il confine imbevuto di fuliggine del cuore

che ha costretto un bambino a uomo, una sorella a madre.

 

Contavamo sulle dita le nostre età,

qualcuno fischiava, altri accennavano un sorriso,

e insieme ci struggevamo per lo spazio certo del focolare,

il solletico al naso del polline,

la calma delle nuvole di passaggio,

il gioco obliquo di una farfalla,

le stelle, la salsedine, l’amore, e l’eco delle più piccole cose,

per affondare nelle rughe di un genitore

e sapere che nulla era cambiato, noi uomini ancora figli, chi più chi meno.

 

Eravamo zolle di carne e confini d’ossa

dove ogni nome era un esordio compiuto della terra,

e la vita ramificava in una manciata di orme da stagione

a lavare i ricordi,

ognuno dei quali barava, come l’ultimo dei tarocchi, con la sorte

prima di declinarsi al perdono,

non più che la bellezza morbida del dolore

in un seme di sangue di primavera

che disseta.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Gli eterni ritorni (al poeta B., 1945)” di Davide Rocco Colacrai

 

La potenza della parola del Colacrai vivifica la narrazione in presenza, per mezzo del movimento lirico di freschezza e insieme di cultura e al contempo trasfigura la fremente occorrenza in evento paradigmatico, in apertura a spiraglio di verità umana, partecipata e universale. Il poeta trova le parole delle cose e degli eventi senza voce, nell’abitarli da dentro, attraverso la sinestesia dei sensi, fino anche a morire degli orrori della guerra, a chiamarsi nelle forze naturali ed elementari e nella terra gravida degli inarrestabili ritorni all’eterno dei soldati, non mancando di rinascere al paradosso, con vigore, nuovi il senso e il valore dei semplici aspetti della vita.

Gli amanti tristi

Gli amanti
hanno amori di frontiera
per sopravvivere s'inventano sentimenti

(Ornella Vanoni)

 

Misurano le inutilità compresse nel viavai della gente, gli amanti tristi,

quasi a giustificare la consistenza dei giorni,

ogni giorno la sintesi di una fede

che striscia, come fa la pelle del pane, nei propri frammenti

dove l’abitudine scompare in un bicchiere di vino

che si beve le ombre

e l’attesa, robusta, si mostra come l’ultimo corpo

che il sudario dell’alba ha lavato.

 

Significano i resti dell’inizio nei giorni di pioggia, gli amanti tristi,

dove la vita si condensa nei sogni,

ogni sogno paradosso e padre del mondo

che rinunciano, come fa il vuoto in diagonale nel petto, alla fine

quando non si riconoscono più nei gesti

e il caffè, sterile e molle, li astrae in affanno e tensione,

quasi a perdonare il frutto lontano, e dimenticato, del cielo

nella raccolta dei nomi.

 

Non esiste il tempo, per gli amanti tristi, niente passa e tutto si perde,

l’orizzonte stringe l’aria, lavora l’involucro del cuore

e dilata le solitudini.

 

Si riconoscono, gli amanti tristi, dallo spazio esatto che li separa,

le dita in equilibrio,

la postura al presente,

l’incontro complementare,

le parole neutre,

la fretta,

e il distacco, né più né meno, dei sensi.

 

Sono malati d’orgoglio sotto il peso ancestrale del loro concerto, gli amanti tristi. E di commovente, e

inopportuna, nostalgia.    

​

                                                                                                                                                    

Critica in semiotica estetica della Poesia “Gli amanti tristi” di Davide Rocco Colacrai

 

La parola viva e simbolica del Colacrai coglie degli amanti l’esigenza di esternare la connaturazione umana del movimento, per reificare la fuggevolezza del tempo nella vana speranza di afferramento del divenire. L’amante è frammento in tensione, che cerca il rovesciamento delle certezze e delle abitudini nel sogno inconscio e impossibile del tempo fermo. Il crollo dei valori del nichilismo affronta l’amante con la solitudine del leone nietzscheano: con la tracotanza della volontà, tenta di superare la necessità e, padrone di macerie, distrugge senza veramente creare. È dolore inguaribile al poeta l’alterigia di chi preclude alterità e inutilmente presume, con la traslazione del chasma di Ecate, discesa iniziatica nel grembo, la riconquista della presenza e dell’infinitezza di sé.

Cristo con violino

(dedicata a Baris Yazgi)

 

Sento l’onda che veglia sull’incontro dei miei ultimi batticuori

con le sue variazioni d’azzurro

dove non c’è ritorno,

il mio nome che si allunga in pentagramma

per quelle creature che attendono il cielo,

l’orizzonte che sconfina nel vuoto

prima di essere nostalgia,

sento il giorno che non ha rotta

e l’istante in cui sospeso come una goccia

lascio farmi sogno.

 

Sono un Cristo che ha per croce un violino,

le sue corde il mio pane quotidiano,

la sua voce il mio perdono,

leggero come polline di conchiglia

mi lascio trascinare dove le stelle marine

sono fiori che cantano l’amore

e il mondo è uno schizzo che ha smesso di bruciare,

capovolto nella tela d’ombra che scintilla

e ovattato come il desiderio di una carezza

che desiderio resta.

 

Sento il mio corpo liquido, senza sartiame,

e assoluto,

quasi una lacrima che scivola sui polpastrelli del mare

mentre il sole dipinge il suo raggio

con cui mi trafigge

 

e mi ritrovo sposo senza promessa e senza vestito

 

un albatro di bruma che si tende oltre l’onda, dove i ricordi non sono ancora nati e gli occhi tacciono,

mentre le dita predicono un’eco della mia terra.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Cristo con violino” di Davide Rocco Colacrai

 

La bellezza, poietica ed estatica, del verso del Colacrai, in un coacervo di sinestesie dalla figuralità indomita, accompagna la sacertà dell’inaudito umano dolore, legato ad una, seppur stessa, infausta e disconosciuta finitudine, alla libertà della consustanziazione al tutto, alla connaturazione sponsale al grembo materno delle acque marine, nelle sfumature più dolci e struggenti del superamento dell’individuazione, oltre il confine identitario. L’amara condanna ad un perpetuo esilio dell’uomo dalla casa del senso diviene la catarsi di una commozione universale per questo trascendimento: la dimensione antitetica si scioglie, in infinità e libertà naufraga l’eco della dimensione indicale del desiderio ignorato.

C’era una volta una figlia, c’era una volta una madre

(a Marcella, dedicata)

 

I am my mother’s savage daughter
the one who runs barefoot
cursing sharp stones
I am my mother’s savage daughter
I will not cut my hair
I will not lower my voice

 

E stretta nel suo grembiule dalle troppe stagioni

contro le quali premeva la parola

quasi fosse uno di quei fiori che insistono a fare compagnia ai morti che nessuno piange

la vedevo muoversi con le ombre della casa

nel loro moltiplicarsi, sfaldarsi e diventare tutt’uno con il buio della sera

in attesa che facesse capolino il respiro di mio padre

con cui si congelava la vita in ogni gesto

e faceva allontanare di là dalla porta l’ultimo pensiero di felicità

e con esso persino Dio –

 

le ore avevano un peso specifico che la soffocava

nel loro essere una clessidra senza stupore con cui attraversare i giorni

e misurare passo dopo passo quel perimetro

all’interno del quale tra un chiodo e l’altro una distrazione maturata come destino

doveva svolgersi, le promesse senza figli

a diventare una seconda pelle al di qua dei sogni

mentre da fuori la sorprendevano l’eco dei bambini che rincorrevano una palla

e il richiamo lontano di un cane

 

gli anziani a riposare, come l’affetto dopo la guerra, nel cortile.

 

Ricordo il rumore asciutto e incandescente della mano di mio padre

deformata in un pugno, il silenzio di mia madre a trasalire

prima di frantumarsi in ogni stanza, il vuoto

che nevicava dopo.

 

E stretta nel grembiule, storta nel suo asse di cenere, il dolore velato negli occhi

ricordo che mi sorrideva, senza eco come un angelo, ancora.

 

​

 

Sono la figlia selvaggia di mia madre / colei che corre a piedi nudi /maledicendo le pietre taglienti /sono la figlia selvaggia di mia madre / non mi taglierò i capelli / non abbasserò la voce

Critica in semiotica estetica della Poesia “C’era una volta una figlia, c’era una volta una madre”

di Davide Rocco Colacrai

 

La parola corrente del Colacrai attraversa un vasto sfoglio di profonde metafore, a tentare l’impossibile catarsi di un dolore ineffabile lungo le inarrestabili maschere formali, mentre i sensi partecipano vessati e leniti insieme alle reificanti sinestesie. E mentre tutto diviene e trasfigura solo il sorriso di una madre, finanche nella sofferenza, resta in essere, primo di luce, sacertà senza eco, senza analogie, senza tempo.

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