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Donatella Rabiti

Quanti eravamo

Sulla spianata in faccia al mare

gli elmi imbevuti di coraggio greco brillavano superbi.

Il saluto alle madri spose sorelle era scivolato nei ricordi.

Maratona si distendeva sotto un’aria cristallina.

E la promessa di chi ci avrebbe cantato in versi

faceva credere bella e gloriosa la nostra morte.

 

Il caporale ci urlava di uscire dalla trincea.

Il mio compagno tremava nel buio.

Il battito dei suoi denti picchiettava la mia mente.

Respiravamo l’oscurità della notte.

Stavamo correndo verso il filo spinato.

Lo avremmo dipanato con la stessa

pazienza che mia nonna mi insegnava da bambino

quando le tenevo la matassa di lana accanto al camino.

Il sangue colava dalle mani lacerate.

Negli occhi l’immagine sbiadita del santino

di Cristo incoronato di spine piegato nel tascapane.

 

Le vene pulsavano in fronte

mentre correvamo lontano dal villaggio.

Il napalm aveva acceso fuochi violacei

sulla terra dei vietcong.

Una bambina ci guardava

affacciata alla finestra.

Un martello dentro allo stomaco.

 

Quanti eravamo? Rifugiati negli scantinati

delle città incendiate. Le facciate dei palazzi

si rivestivano del rosa dell’aurora.

La Morte respirava sulla carne martoriata,

noi trepidanti in attesa di salire sulle sue spalle.

Ci ha portati dove non serve la guerra per essere ricordati.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Quanti eravamo” di Donatella Rabiti

 

La parola sinestesica della Rabiti rivela l’intenzionalità dell’uomo, che da sempre volge alla memoria, a Mnemosyne, simbolo dell’origine senza tempo, che si oppone al ritmo funesto di Chronos, che diviene negando ciò che è la dea. Orfeo canta l’eternità della memoria: non è la guerra ma l’arte la trasfigurazione al luogo senza tempo.

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