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Elisa Camilla Vincenza D'Ascola

Anatomia della luce dispersa

Ho tasche piene di luce spaiata,
spilli di stelle trafitti dal tempo,
memorie sfuggite a calendari ciechi,
e un sorriso che sa di terra bagnata
fango gentile di promesse sepolte.

Porto addosso silenzi cuciti a mani nude,
non parole: ferite dismesse,
punti d’ombra tra le costole del giorno.
Ogni cicatrice è una lettera muta
scritta su pelle che ha imparato a leggere il vento.

E occhi pieni di voci mai dette,
lì dove l’urlo si piega in preghiera,
e l’attesa si fa giaciglio d’argento.
Le pupille: altari per assenze gentili,
dove l’amore inciampa ma non cade.

E lo sguardo che accoglie sillabe in punta di cuore,
come neve che posa leggera
sui campi nudi dell’inverno interiore.
Ogni battito un verso in cerca d’inchiostro,
ogni respiro un confine da riscrivere.

E iridi che cullano parole vestite di luce,
psalmodia d’anima per sogni rimasti in bozza,
alfabeti tremanti nelle culle dell’anima.
Così cammino:
pelle di pergamena,

vene come righe,
tra ciò che ero e ciò che ancora tremo d’essere.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Anatomia della luce dispersa” di Elisa Camilla Vincenza D'Ascola

 

La parola rituale della D’Ascola è spazio libero fra inconscio e coscienza, per una reintegrazione di sintesi degli opposti. Il linguaggio viene condotto indietro, sulla soglia della sua perdita, nella dimensione epidermica della sinestesia, al supporto primo e irriflesso, all’evento d’incontro del continuum fra sé e mondo, per una rinascita di verità al senso.

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