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Emanuela Dalla Libera

Ha vesti troppo strette la vita che è rimasta

Tu forse ricordi la grande loggia a settentrione,
vi entrava baldanzoso il sole di febbraio,
marzo vi giocava i suoi furori, di là
la primavera ardeva nel maggio rubicondo,
noi di spensierata attesa nei palmi delle mani,
ricordi il grande cedro a fianco al muro?
vi si schiantò il vento a fine di un’estate
ferendosi tra gli aghi e i rami torti,
fugando l’ombra molle ai girotondi,
al muschio i suoi umori, i passeri ai richiami.
Era grande anche il tempo, ci ballavamo
dentro come in vesti troppo ampie,
aerei vi aleggiavano i pensieri nel nudo velo
degli anni a divenire, le braccia tendevamo
ad afferrarlo, ma quello, come foglie d’autunno
incaponite, fuggiva via tradendoci alle spalle,
rimpicciolendo lentamente di là dell’orizzonte,
oltre le nostre vite sull’erba e lungo un rivo,
oltre i nostri sguardi protesi dai balconi.
Ha vesti troppo strette la vita che è rimasta,
si addossa al vecchio muro cercando un varco
aperto, di là del lento rivo una sponda colorita,
l’acqua vi scorre delle piogge novembrine,
a noi una voluttà furtiva tracima sul confine
tra il tempo ancora nostro e quello della morte.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Ha vesti troppo strette la vita che è rimasta” di Emanuela Dalla Libera

 

Innaturante e simbolica, la parola di Dalla Libera aggetta dalla loggia, dal luogo di transizione spaziale, al cammino d’iniziazione. È il passaggio di sé agli elementi naturali, per il fuoco, l’estate, l’adolescenza, per la visione istantanea del mezzogiorno, in qualità di ricongiungimento di segno e significato. È lo zenith di vita il momento in cui le ombre scompaiono, rimosse e ricacciate profondamente, così risolve ogni dualismo nell’istante d’eternità apicale. Tuttavia, la casa dell’io è scossa dall’ombra interiore in autunno, gli opposti riaprono una dialettica di contrapposizione alle ignare certezze, di richiamo alla dimensione inconscia e l’uomo è confinato nella finitudine della forma in divenire, a concedersi l’esondanza di un senso ultimo, fatalmente trafugato dall’oltre.

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