Gabriella Cinti
Il sonno degli dèi
Dopo il canto mi vesto di silenzio
mentre catalogo l’assalto verde
dei profumi, come album ingialliti
di speranze indisciplinate.
Penso il tempo nella lente dell’impossibile,
e non c’è vento
che apra private epifanie.
Il sonno degli dèi mi chiude il respiro,
mentre un’eclissi invisibile
mi configge nell’oggi,
con la schiena voltata alla vita.
Eppure, nei mulinelli di niente,
trasvolanti tra cortine di sentire,
nella seta scivolante tra pensieri,
leggo la musica della tua assenza.
Decollo dai tuoi occhi,
miei per prestito d’amore,
e riprendo quota
oltre le sbarre che arrestano il volo.
E mi vedrai planare,
dentro l’azzurro a cui appartengo,
nel luogo soave del riconoscimento,
nell’oro raccolto nel folto del bosco,
a barbagli posato sul viso.
Amami,
così come corre il vento
e come canta la luce,
nella verità risplendente
che ci eterna.
Critica in semiotica estetica della Poesia “Il sonno degli dei” di Gabriella Cinti
Il verso sinestesico e insieme filosofico della Cinti ricorda e riaccorda la parola all’intimo respiro del senso, seguendo la genealogia che scopre nella voce i nomi di divinità dimenticate e invoca Spes, ultima dea, per la potenza del suono e del silenzio, che rompe la maschera del nome e inizia al superamento di un’epoca in cui il divenire è privo di essere. Il ritmo rituale del respiro indica che espressione è segno del ritorno, occasione di un’origine: parola è mythos, racconto cosmogonico e gli dei sono il nome collettivo nel quale riconoscersi. La parola originaria non è convenzione, ma suono, respiro, ritmo, movimento, arte di vivere che porta in presenza l’assente, amore e congiunzione di opposti, nella ripetizione infinita e sempre differente della verità, che nell’uomo mai splende, ma risplende.
Sirena libera
L’abito di piume che ti veste
è solo il tratto più elegante
del tuo volo.
Ti penso come i babilonesi,
mentre volteggi tra le esitazioni
del mio ottobre.
Tu che sorridi di illimite,
sgrani la meraviglia del qui noi,
sbigottiti eredi dei primi fotoni
scampati all’antimateria
in quel colpo di dadi, sorridente,
che ci ha accorpati
in queste galassie.
Ricomponi anche le mie
trecce di segni
fruscianti d’autunno,
briglie indecifrabili di destino.
Scendi tra le foglie rosse
di irrealizzato
e scompiglia la ventura
del prevedibile.
E viaggio sia l’ultimo canto,
da gabbia di mito
nuoto ardente d’aria
e fuoco bianco di memoria.
Critica in semiotica estetica della Poesia “Sirena libera” di Gabriella Cinti
Simbolica, la parola della Cinti apre infinità e meraviglia, dalla profonda regressione acquea inconscia all’aerea ed alata trascendenza melodica della sirena, nella sintesi degli opposti in un archetipo di morte e rigenerazione dell’identità. La poetessa cerca l’elargizione del senso alla nudità essenziale del segno, che riporti il caos al cosmo, a riscrivere libero il destino, rinascente dallo spazio bianco del supporto, all’ignea e alba relazione fra le parole, pullulante silenzio: infinita forma di possibile a venire dalla materia inconscia della verità.