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Gabriella Paci

Cosa resta di una storia d'amore che ha perduto l'amore?

Calipso: - Infelice, non starmi più a piangere qui, non sciuparti
la vita: ormai di cuore ti lascio partire. -

 

Restano conficcate parole nella gola

che dure ricavano spigoli d’ombra

e chiudono al vento l’abbraccio con

il cielo. L’imperativo del dolore taglia

l’orizzonte, lascia l’illusione dello spazio

e diventa linea di confine che si staglia

oltre l’albero segato storto, nell’ultima

beffa del taglio. Misura degli occhi è

il cader frale delle foglie che fingono

il volo mentre perdono il ramo e sanno

della discesa senza ritorno.

 

Ma accade che la storia suggerisca

la lusinga che cura nella culla del

ricordo e torni al tempo del rifugio

e della gemma scaldata dal coraggio

del raggio nascente.  Sillaberà allora

ancora l’amore come astro di luce

che ha attraversato il vivere

e lo ha accompagnato nel sogno di Calipso.

 

Resterà forse allora il profumo del

bosco degli incanti nel disinganno di foglie morte.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Cosa resta di una storia d'amore che ha perduto l'amore?” di Gabriella Paci

 

Maieutica, la parola della Paci esorta alla valorizzazione del sentimento d’amore, che vive fra le braccia del riconoscimento mutuale e dissuade dalla sinestesia cieca, che reifica il sogno di un’infinità perduta, al prezzo della solitudine, dell’unidirezionalità del sentimento illuso di una gioia a morire e ricacciato nell’ombra. È dolore e disillusione la cupa passione di Calipso, letteralmente di colei che nasconde. La verità dell’amore radica nell’inconscio quanto germoglia alla luce cosciente.

Mi somiglia l’autunno

Mi somiglia l’autunno che finge
o forse prova davvero un’allegria
di colori rubati al sole che s’illude 
della sua chiarità che s’annega 
in ombre d’improvviso calate. 

Il capriccio del vento sfida 
la foglia ostinata che dipinge
sugli occhi il rimpianto mentre 
si veste d’impossibili gaie tinte 
a negare il grigio annodarsi
di pensieri, cirri vaganti 
nell’inquietudine d’un cielo
che cede alla sera ammantata
di rosso nell’ultimo saluto
al giorno che si perde nel buio.

L’autunno insegue la chimera dei
passi di luce prima che si smargini
il quadro di colore del bosco sotto
una pioggia che piange un’estate
smarrita nei passi di foglie caduche.

Anche io inseguo bagliori ostinati
mentre abbraccio incipienti crepuscoli. 

 

Critica in semiotica estetica della Poesia “Mi somiglia l’autunno” di Gabriella Paci

 

Continua e naturale, la parola della Paci insegue l’ineludibile tensione a essere e disvela la stagione d’autunno come la condizione umana nel segno del fuoco, che arde e realizza in rubedo tramontante, un istante prima della reintegrazione indifferenziata alla terra, alla notte del sole, alla notte della coscienza, all’altra notte, che mortifica invernale. Il significante assottiglia, spoglio di orpelli, per una rappresentazione che quasi solleva, che approssima alla volontà ultima di verità. L’autunno è la solitudine dell’uomo, costituita di sinestesia: il tempo letteralmente arricchito, fra una pertinace coscienza e un inconscio incipiente.

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