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Gianni Terminiello

Fili di viali... seduti al sole

Squarci ramificati di una vita…

cadono come foglie di una stagione.

 

Rimbalzano i suoni del tempo e sempre

mi aspettano nel fondo di quel viale

bramito.

 

Sanno di essere nettare… ed io mi adagio

finalmente, seduto al sole e ascolto il mio

vento che ci cammina dentro, separando sguardi,

destini, memorie, frammenti di passioni.

 

E poi… crederci ancora, facendo finta

di niente, con quel gran rumore che mi chiama

dal di dentro, ma sa che sono nuvole passate.

 

Le frugo, nel concerto di mille granelli di sabbia,

sepolti dal girovagare di un mare… prestato

per una volta al via vai di una battigia che trattiene

i suoi ricordi.

 

E cullarmi… all’antico sospiro dei balconi burloni…

assiepati, tutti a scorrere immagini del grano duro

di un’esistenza.

 

Sono gli intrecci di sempre… li assaporo in un

romantico volo di ombre, ospiti attraenti del mio

attendere.

 

Quante frange di vetrose onde a spruzzarmi negli

occhi le aggraziate ricchezze dei miei momenti.

 

Lì… rispolvero il tono malinconico di mille estati

e sorseggio attimi di pennellate sulla nudità di un

quadro che incornicia pezzi di me.

 

Bugiardo cadere dell’inerzia di una illusione…

a sfilare nelle braccia di un piacevole racconto

dell’anima.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Fili di viali… seduti al sole” di Gianni Terminiello

 

La parola, aperta e ricca di sorprese sensoriali, del Terminiello è pienezza di una solitudine, risveglio sinestesico, connubio alle immagini del divenire. Le mani delle parole del poeta toccano la caducità dell’apparire e trasformano l’estraneità del tempo in musica vitale dell’emozione, che si ferma, per magia, nel silenzio dello spazio di pausa, ad indice di presenza. Ogni paesaggio è percorso interiore ricreato dai sensi, abitato dalle forze elementari della coinonia alla natura. Il mare è sintesi di opposti, è inconscia verità, a lambire brevemente l’illusione della parola nel ricordo, nel riaccordo, quando l’uomo è nostalgia e mancanza, nei fugaci abbracci dell’anima.

Il Giglio di Maggio

Quanto è bugiarda la paura…

piena di grano svuotato, ma certo,

quando sarò un fardello da portare

a spasso, forse… solo allora ti dirò

che quella sera anch’io ho pianto…

ma ora però, rimane solo un ricordo

della notte.

 

Eh sì quella notte, nella guerra della

vita… di questa strana cosa che si

chiama fatalità.

 

Tra sensi di colpa… girotondo di macchine

sfiorate e tu, come goccia di fiore, scalpiti

sempre, anche se i tuoi occhi non ci sono…

sono una misteriosa ombra nel labirinto

umano.

 

È sera… anche nelle nostre vite disseminate

a mietere un perché, per te… lanterna appena

illuminata, ma entrata dentro di noi come

manto di sole.

 

Ho sentito se respiravi… la prima cosa, in questa

apocalisse di una esistenza così piccina, ma tu sei

fresco e duraturo, come quel giglio che per me ora

è il ritorno alla felicità.

 

Il sapore adesso volteggia aggraziato…tu mughetto

di primavera, con quella mascherina a coprire il tuo

viso piccino… confuso, a sentir parlare le stelle,

ma sicuro di voler tornare tra le braccia di mamma…

e così gli occhi tornano a parlare.

 

Ora tu sei giglio di maggio… ricchezza di dono

e ritorno alla felicità, sullo scranno di una conchiglia,

àncora ad origliar il rifiorire di un fiore bianco.

 

Angoli di mille finestre ad aprirsi e chiudersi…

ed io mattone scollato a sollevare il mio vecchio

viso d’attesa.

 

Fertile mano di dio… alcune volte sai agitare il respiro

di una bellezza, come seme di eternità.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Il Giglio di Maggio” di Gianni Terminiello

 

Il verso del Terminiello è aperto e sospeso, in corsa lungo il sentiero di tracce fragili e divenienti delle parole sensoriali del sentimento, al luogo di verità dell’anima, causa e fine, grano della vita. Una vita umana che appartiene alla natura e alle stelle, da cui tutto proviene, a cui tutto ritorna, ma che sceglie di cadere al senso, all’abbraccio della meraviglia del riconoscimento, alla finitudine amorosa del desiderio e del chiasmo al mondo, per germogliare l’eternità dalla bellezza.

Non far del grande suo viso…

​

Nei suoi pensieri a bassa voce,
quella bimba mette le ali a Dumbo,
il suo elefante preferito e… la fantasia
diventa armonia.

​

Lei illumina il viso quando ritaglia quei
pezzettini di giornali a fogli colorati….
lamelle di immagini tra biscotti assaggiati,
quasi assente con il naso all’ingiù a scrutare
arcobaleni di infiniti assaggi di contentezze…
le basta poco.

​

Coglie gli attimi come scatti di fotografie
e così nascono cespugli di fiori, animali
parlanti, fate in maschera, la regina delle api,
la terra sul mare o… l’erba accarezzata.

​

Scioglie la sua anima nelle dolcezze di un sole
parlante, ma solo per lei, perché è una creatura
che brancola tra i pagliai dei suoi pianeti.

​

Non fa mai del piccolo suo viso un cespuglio
smarrito, lei si impiglia solo al piacere discreto
di saper regalare un sorriso.

​

Quella bimba è la speranza di un mondo che
non sa bussare alla porta dell’anima, ma lei
ci entra sempre, senza aprirla.

 

Critica in semiotica estetica della Poesia “Non far del grande suo viso…” di Gianni Terminiello

 

Omaggiante la memoria montaliana, la parola del Terminiello offre una de “Le occasioni” di ascolto interiore e di redenzione dal dolore, nella visione dell’infanzia in qualità di luogo di saggezza, poiché il saggio è colui che trova il sapore del sapere, nella sintesi individuativa d’inconscio e di coscienza. L’infante possiede le chiavi della sinestesia armonica, a proiettare di sé in abbraccio consustanziale al mondo, in un gioco divino, a ritrovare l’unità primigenia perduta dell’anima, nel dono di senso, di valore, di verità, di speranza.

Smettere di aspettarti...

​

Ed io lì… col naso all’insù,

qual furto di stelle, giammai

a svanir con loro.

 

Nel mio tempo c’è il profumo

del miele amato, come gocce

di luci di anima cadente... anch’essa

pregna a cercar la sua.

 

Quanti anni di ritardi, dentro quella

musica di colori, loro ad avvitarsi

e sprigionare carezze di un cuore

errante.

 

Ed io lì… ridipingo ogni volta il mio

silenzio, ascoltato nelle folate di una

memoria.

 

Mi manca quell’immensità di non aver

amato in fretta… come loro, ma nella

fragilità dei miei perché… memorie.

 

Così… lasciarsi andare alle stelle e parlare

con loro dei miei ricordi.

 

Eh sì, con loro nel buio della notte… cadendo

senza far rumore, ascoltano l’assaggio ingenuo

di una mente umana, anch’essa caduta nella

riflessione delle cose.

 

Ridipingo quell’incanto… al di là del cielo

stellato, anche Ulisse seppe amare da solo, nelle

gonfie vele dei suoi approdi… magia.

 

Vorrei anch’io sorseggiare questo sonno di milioni

di stelle, come farfalle a moltiplicarsi in quello

sciame delle Perseidi… sembrano fiori svogliati

di profumare ancora.

 

Smettere di aspettarti… forse, nelle palpebre

arrugginite di un rimpianto.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Smettere di aspettarti...” di Gianni Terminiello

 

Romantica, la parola del Terminiello esprime l’amore sublimato del rimando, dell’attesa volta ad un oggetto d’amore che è già ricordo e il rimpianto per il piacere fremente perduto. Il luogo dell’amore del poeta congiunge e risolve, è grembo della perpetuazione che trasmuta la materia grezza del sentire nell’aurea e melata quintessenza, nel desiderio, nel senso delle relazioni.

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