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Giovanna Nobile

L'addio

Nella strada deserta le fioche luci

tremano sul mio lento cammino,

mentre il povero fior di biancospino

emana lunghi effluvi di profumi.

 

Oltrepassata la porta, osiamo alzare

gli occhi perduti, ma non ci guardiamo;

l’addio non lo diciamo, lo pensiamo:

guardano gli occhi l’amore tramontare.

 

Dondola sui colli un po’ di luna in corsa,

l’angoscia a noi sale dai precordi

e una piena improvvisa di ricordi

ci attanaglia i cuori in una morsa.

 

Muta, io piango e stretta alla tua mano,

la mia mano trema di sgomento

per l’imminenza del dissolvimento

dell’amor nostro e del rimpianto vano.

 

Un bacio freddo spezza la catena,

un bacio senza cuore che frantuma

e avvolge l’inaridita anima oscura

la mia povera anima di pena.

 

Ed è l’addio! ...Il fior di biancospino

emana lunghi effluvi di profumi.

Nella strada deserta i fiochi lumi

muoiono sul mio lento cammino.

Critica in semiotica estetica della Poesia “L’addio” di Giovanna Nobile

 

Il verso elegante e musicale della Nobile canta la separazione dall’oggetto d’amore, inversamente la rima e la metrica della poetessa riannodano lo iato ai lacci della melodia, che affida il perduto a divina cura, eternandolo al grembo naturale, così che anche la luna, impietosa, or mareggia i ricordi. E se le simboliche luci della coscienza porgono

il commiato, tanto più la presenza scotomizzata del legame si rinnova e accresce ai sensi nel profumo,

che, anche a distanza, in sinestesia, adduce alla prigionia della presentificazione e del connubio.

Dove sei

Sul velluto muschioso d’un sentiero solitario

a capo chino cammino e bevo l’alito divino del vento profumato.

Mi turbinano le dolci rimembranze d’un passato lontano…

Dove sei che più non rispondi?

 

Com’eran belli i sogni quando c’eri tu

che me li fasciavi co’ tuoi neri capelli!

Ed eran così belli quando sbocciavan ne’ tuoi occhi profondi!

Dove sei? Perché taci?

 

Quante cose da quel dì son morte!

Speranze d’un sorriso di sole,

d’un sorriso pur tenue di gioia, mamma mia!

Ed i ricordi malinconici sorgono, un po’ sordi, un po’ increduli

 

Sotto questo riso folle di cielo azzurro!

Ti vedo intenta a riparare la tua adorata casa, alacre e contenta,

mentre una piena improvvisa di ricordi mi attanaglia il cuore in una morsa.

Muta, io piangevo e, stretta la tua mano,

 

la mia mano tremava di sgomento

per l’imminenza del disfacimento

dell’amor nostro e del rimpianto vano.

Resto sola io con te, madre mia,

 

e mentre piango, van le mie mani al tuo volto

per l’ultima carezza, mia giovinezza perduta!

Batte l’ora del commiato nel vuoto,

sulla tua fronte il mio ultimo bacio

 

e l’addio un po’ indeciso

mentre l’autunno ci guarda tristemente!

Di quel santo amore

Nulla rimane più, tranne l’affanno.

 

Mamma deh! Mamma, chinati d’accanto

al mio piccolo cuore col tuo gran cuore;

chinati accanto al mio cupo squallore

 

e con i baci tuoi, tergimi il pianto.

E ora, se nel tremore delle mie labbra gelide è un rimpianto,

è per i baci tuoi, mamma, soltanto.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Dove sei” di Giovanna Nobile

 

La dolce e straziante melodia dondolante della Nobile culla e lenisce lentamente il dolore di una risposta muta

alla domanda della presenza materna, perduta. L’abbraccio dei versi del titolo perde l’istanza interrogativa del verso, poiché la presenza materna è proiettata, nella reificante sinestesia dei sensi, su ogni cosa intorno: il grembo stesso della natura è il grembo dell’affetto della madre e se anche con la madre si smarrisce del sé stesso, nel pur triste

e spoglio sguardo della stagione autunnale è un cenno del valore inalienabile di quel mai vano riguardo,

di quel riconoscimento, dell’eterno ritorno di quell’amore.

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