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Giuliana Prescenzo

Barconi

Galleggia un ponte, imbevuta paglia,

attende la sua voce dalle sponde,

flussi di marea dal dorso nero,

sangue pesce corallo,

ti abbraccio fratello.

Nude di vele, di colombe

le madri serrate all'eterno degli incensi

gemmano sale

nell'urto dell’iride fanciullo.

Raccolto Scialle.

Esausto ventoso di mare

scolora barlumi di speme,

scolpito in fango salino

lontano sicomoro,

succo bruno della jacaranda.

Ho visto barche coraggiose

straboccanti d’Africa,

barconi incatenati d’afa,

stormi d’alveari a braccia tese,

fame di mari, di terre disossate e fossili,

ho visto barconi che tornano vuoti…

sazi di sete.

S’illumina nei polsi d’ebano

un prisma smeraldo, spumeggia,

roseto d’alghe aggrovigliato.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Barconi” di Giuliana Prescenzo

 

Concentra simboliche profondità di senso la parola ermetica e frammentata della Prescenzo. Procede per salti creativi abduttivi, dalla dimensione logica a quella gnoseologica, abbraccia il veemente, improvviso e inatteso stupore dell’impatto sensoriale ed emotivo di ciò che resta inespresso, o contraddetto nell’ossimoro, per un nuovo paradigma di realtà, che liberi un ascolto panico e viscerale dall’indifferenza anestetica dell’abitudine,

per un’inferenza conoscitiva.

Orme

Portava nel palmo il muggito e il trotto sbrigliato

tra quelli nel lamento degli insepolti.

Scalzo come umile accattone,

errante convertito in fame di larve nella cova,

la sete inamidata alla cavezza d’un ritorno.

Palpitava la fretta sapiente dell’erba nel rialzarsi

sotto i piedi fasciati a spaglio,

cuciti in condono di spine lacerato di cordella.

Aveva per fedele il vento, ronda agli ibridi di pianto

perforava lo strascico di piombo,

farfugliava come una pena di poveri,

implorazione dei deboli tanta carne di madri

nel grido senza gola degli eroi.

L’apatia audace grigio d’innocuo serpente

origliava fusa nella sua valle d’orzo golosa di zucchero.

Sera, come fu dolce la ginestra appena gli fu in viso!

Sole di preda la collina biancolana

risaliva docile e vagante nel tenero belato,

festosa una cincia sparse di porta in porta

del ramingo immerso di bruma,

mentre soffiava calda la rossa trama

stigma nel petto della casa sugli orti.

Schivo, s’inventò un volto…

non parlò mai delle orme di sangue…

per il resto del tempo…lo ricordo…

mio padre ebbe soltanto due paia di scarpe,

uno che spalmava di grasso nell’inverno,

e un altro… come un dolore a contenere la maschera dei giorni

faceva compagnia alla sua prima morte.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Orme” di Giuliana Prescenzo

 

Corrente, la parola della Prescenzo, in un coacervo di vive e stupefacenti metafore, tenta le crude maschere formali di un incontenibile dolore, inquieto sintomo che migra e che affiora crudele all’ineffabilità di un male inestinguibile. Anche del sopravvissuto resta impigliata la vita nella guerra, i sensi restano incollati alle reificanti sinestesie dei luoghi, ove la terra confonde alla carne, ove la volontà è vento, portando il segno rituale della morte, l’esempio della vita.

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