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Giulio Bernini

Luna silente

Quietissima notte della terra,

una sorgiva vergine lama di gelo

trafigge il tuo sereno.

 

Non c’è segno

nel volgersi lento dei cieli,

il dialogo non muta,

come in un rito consueto

in me riarso piego

il silenzio antico della luna

a memoria di un viso,

di una mano levata  a spartire

capelli di miele sulla fronte.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Luna silente” di Giulio Bernini

 

La cocente nostalgia del Bernini apre la notte al cerimoniale incontro sinestesico con l’amore, felicità oggettualmente all’uomo disconosciuta. L’umana sorte è consegnata al riflesso lunare, la parola, come lama di luce seconda, è luogo generativo sempre pur vergine al cospetto del ventre notturno dell’essere del desiderio. Non c’è segno che abbracci l’oggetto d’amore, eppure, la sinestesia dei sensi del poeta, atto transitivo, da un intatto tangere di parola,

arriva a vincere sulla solidità di un mondo oggettuale e sfiorare ancora, nella finzione creativa di una realtà soggettuale e nell’emozione, il perduto.

Padre

Prima domenica d’estate,

dicesti ho inteso il tempo fermarsi.

 

Non serve sperare, attendere che il cuore

batta ancora,

ci porta l’orbita veloce

per finiti spazi sconosciuti,

soltanto resistono immagini, voci,

frammenti di anni vento e febbre,

nostalgia di te, di noi.

 

Mi sei vita e non posso chiamarti

non ci sei

il capo appena chino ad ascoltarmi

e un grido vince

e la terra è riposo vano,

sei respiro interrotto

presenza lacerata

che tocca il fianco e l’apre.

 

Il lampo del ricordo incrina il cielo,

eri oltre passato e futuro,

eri silenzio, unico varco

nella tenerissima distanza che ci univa.

 

Portavi il tuo nome con orgoglio,

invidiabile la bella dignità dell’addio,

eri già oltre

eppure nella radice del nostro stesso sangue

e più oltre ancora

tu vivi.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Padre” di Giulio Bernini

 

La parola spezzata del Bernini dichiara la costitutiva imperfettibilità del sapere, la transitorietà, che rende l’identità segno e sintomo di un altrove, di una nostalgia, che insaziabilmente rimanda a un’unità dissolta. I versi del poeta partecipano il dolore, ma celebrano l’infinito possibile rincontrarsi fra le braccia eterne delle forze elementari e archetipiche della vita. La ricerca del paterno mancante supera la spazialità di un possibile smarrito, si apre all’ancora, un ancora differente, ma stesso, perché ugualmente intenso nel senso, nel valore. Il movimento del continuum della vita umana e cosmica, oltre l’identità singola, traccia l’appartenenza essente al tutto e la sensazione estatica dell’abbraccio alla vita, eternamente e ciclicamente presente, è liberazione dalla sofferenza della separazione,

per la tensione al tutto unico e assoluto che lega le cose, dono dell’arte.

Piove su Roma

Piove e su Roma

cala un liquido sipario di corolle cristalline,

perle infrante sull’asfalto e il vento

batte sui vetri con rabbia di cuore impazzito.

 

In sere come questa il dolore d’esistere

oscura esitanti lampioni

in fondo alla strada lucida di pioggia,

vive agli incroci e nel Tevere cupo,

aspetta impaziente sull’ultima corsa del tram

e svela fragili il corpo e l’anima riflessi

negli occhi di una ragazza china sul cellulare,

triste fiore piegato come per lungo pianto.

 

In sere come questa si perdono equinozi perfetti,

lacrime di sabbia e ardesia e in ombra di stelle

morenti cadono rose, memorie, primavere.

E io cieco in una casa di specchi.

 

Ti penso, compagna che forse ho amato,

parla di te la poca luce che consola.

Vorrei sfiorati teneramente il viso

dove forse qualcosa ancora vive di noi,

trasparente assenza che ci vide schiavi

dell’estasi fonda nel porto delle braccia.

 

Morde il silenzio della giovinezza

sulla nostra panchina all’Aventino,

dove fioriva il roseto quando nel tuo stupore

era tempesta e la fiamma del tramonto nell’iride

mentre dicevo lasciami andare, sentire la felicità

morire a poco a poco sarà troppo lungo dolore.

 

Il giardino ha già patito il suo sfiorire,

più non conosco il cielo.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Piove su Roma” di Giulio Bernini

 

La parola discendente del Bernini scivola liquida e lentamente trascorre in dolore e in tempo, resi alla sinestesia del movimento in acque fuggenti, partecipati dall’assoluta sintesi di uomo e dimora ambientale all’elemento naturale. La tempesta è inconscio e vivifica, travalica le finestre dello sguardo a battere il cuore del vento, a riecheggiare la città delle emozioni profonde taciute, in estrema catarsi. L’umano è segno al poeta, è parola, dolore dell’esistere: “trasparente assenza” di un altrove d’essere, di silenzio, d’abbraccio, di felicità, di stupore, di cielo, d’infinito, di presente estatico di vita eterna, amaramente e irreparabilmente perduta al dire.

Con soffici vocali

Fuori della porta appese a un chiodo

ho lasciato le parole di sempre

con la vecchia abitudine del mio amore per te,

e ora che ho bruciato i calendari

sciolto ogni legame e pregiudizio

sono libero come la nuvola e l’alba.

 

Chiuderò in una gabbia pugnali e bugie,

sillabe assennate e buone maniere,

accenderò lanterne rosse e bianche

perché nessun colore, nessun cielo mi sfugga.

 

Poi con soffici vocali sul palmo delle mani

risveglierò il nostro amore,

così che torni a diventare la mia casa

grande da nasconderci la gioia,

com’era al principio

per la strada dove ci amammo da ragazzi,

furtivi, ché non ci sorprendesse il destino.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Con soffici vocali” di Giulio Bernini

 

Il lucore limpido della parola del Bernini è assorgimento, dalla nube della parola all’alba del suono del sentimento, che diffonde. Il poeta cerca la parola nuda dell’abito del sapere, la parola scalza delle suole dell’abitudine, oltre il pensiero consolidato al costume sociale, per la sinestesia accesa dei sensi. Il poeta si richiama al furto prometeico alla deità del fuoco, della verità ignea e fugace dell’emozione, all’interiezione, alla vocale aperta dell’indistinzione, alla sorpresa di senso, di continuità nell’amore, alla gioia ferma dell’istante, fra memoria inconscia d’infinità e destino di dolore al becco aquilino della coscienza: nel libero gioco fanciullo, che fa e disfa la vita eterna.

Di una donna, il tempo impregnato di dolore

Gli occhi fissi alla pioggia, perduto nella regione sospesa

tra il sonno e la veglia, lui respira nicotina e mormora versi

di un osceno motivo popolare.

Piegata sul cucito al riparo di un muro interiore,

per non morire penso alle rose più dolci in primavera

intrise di vento che tutte le possiede.                         

E alla mente d’un tratto torna il gitano bello e gioioso

che in un lontano giorno di festa lesse dal mio palmo

la fortuna e un bacio chiese per compenso.     

Rivivo delle labbra il tiepido contatto, la vampa sul viso,

lo sconosciuto acceso turbamento.

Un tremito, un sospiro e il filo vola via.

Lo raccolgo: ritrovo la vita passata, il gitano gioioso,

il viale alberato che - complice - nell’ombra

l’abbraccio nascondeva.

Riprendo a cucire e piango, in silenzio

ché lui non senta, non veda, non esplodano le sue parole.

Ora so che non c’è ritorno. E se domani al risveglio

fossi cieca e sorda per non vedere, non udire?

Rimpianto, solitudine, filo caduto

sul greto del tempo impregnato di dolore,

fiume disseccato dove infine riposo con il mio fardello.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Di una donna, il tempo impregnato di dolore” di Giulio Bernini

 

Il verso cantato del Bernini racconta della prigionia di una donna, che eleva il filo del cucito a metafora del corso della vita e come complemento delle Parche, Clòto, Làchesi e Àtropo, subisce essa stessa il silenzioso reiterato destino di sofferenza, che solo l’immaginazione allevia. Il filo è lacrima, sintomo dell’abisso nascosto di sogni svaniti, di ricordi dimenticati, di rimorso, di rimpianto, di paura e insieme letto asciutto del fiume, del divenire impetuoso e impietoso del perduto, che si arresta, nella fissità immobile del presente, come morte ripetuta, quotidiana.

Il sorriso dei ragazzi innamorati

Al primo spiraglio d’azzurro

tra nuvole sfrangiate dal vento incostante

irrompe nuovo il sole nitido di marzo.

Così splende e rinasce – unicamente loro –

il sorriso dei ragazzi innamorati,

pulviscolo solare fra le labbra

tra un bacio e l’altro                 

nell’ora in cui si attende la luna

sul lenzuolo chiaro del silenzio.

Risuonano gaie risa per un grido

fuggitivo oltre la soglia del cuore

nell'incendio di un respiro condiviso.

Ombra celere di un volo è il tempo,

crescono in fretta i ragazzi

e a volte il canto di una donna mentre annotta

somiglia all’addio di un’età perduta.

Si ridesta il vento nelle valli,

si spezza come un giocattolo

nelle mani dei bambini,

già incrina il vetro dell’azzurro.

Al confine di luce e ombra

sulla ruota delle costellazioni

è il crepuscolo la mia unica stagione

che dall’alba cade senza posa

come neve fitta,

 

e io più non so cosa il marzo è stato,

cosa il cielo nella luce di un sorriso.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Il sorriso dei ragazzi innamorati” di Giulio Bernini

 

La malinconica parola del Bernini assorge nuovamente ai sensi con la primavera la stagione solare della giovinezza, quando la limpida oltracotanza del sorriso esonda di sé nell’altro, nell’animismo esteso di un unico respiro e ogni silenzio è infinito giaciglio d’amore. La deità meridiana del volo acerbo, tuttavia, è corrotta dalle ombre del tempo e presto volge all’invernale incertezza del crepuscolo, che disconosce la chiarezza illusoria di un’eternità perduta.

Fra poco è l'alba

Fra poco è l’alba. Alla finestra

tremano le costellazioni dell’inverno,

nulla che rompa il silenzio.

Il buio si addensa negli angoli,

l’oscurità informe pesa sul sonno

le notti di dicembre.

Senza quiete né memoria, indeciso,

sto come un bambino alla porta di casa.

Varcato il confine opaco del sogno

vorrei sollevare il velo e scoprire

a cosa, a chi sto dicendo addio.

Mi mancano i ricordi, con loro

è avere nella vita un luogo

mai dimenticato, immutabile,

dove l’affanno si placa e ogni gioia.

A volte appare una nave

in fondo alla mia stanza,

vele spiegate a cercare il vento.

Mio padre da bordo chiama

“vieni con me, vedremo il mondo

e gli anni, tutto ti sarà svelato

nei colori del cielo a primavera.”

 

Sul muro tremula una macchia di sole,

il primo fiore si apre.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Fra poco è l'alba” di Giulio Bernini

 

Prossima, la parola del Bernini è lucore di una vicinanza, già obrizo presentimento della cosmogonia di un sapere. Silenzio, oscurità, gelo, sogno e assenza si addensano nella solidità di un unico corpo gravante della vacuità di un ingombro, che induce alla partenza, al passo fanciullo e valicante, al risveglio al luogo dell’essere che la memoria trasla dal passato al futuro, è una sapienziale spiritualizzazione della materia, al primo palingenetico lucere splendente di un’eterna primavera.

Pietre della memoria

Quanto inverno si è posato su i fiori recisi
e su i nomi stretti nella stessa pietra.
Fa freddo e voi fratelli, là dove siete
copritevi bene con la terra, sono lontani
i vivi, lontana la compassione,
solo le donne crocefisse nell’attesa.
Ombra celere di un volo è il tempo,
di loro non c’è memoria e scuola,
inascoltata la storia è scritta sulle targhe
nei nomi delle piazze e delle vie,
sui trofei di tante morti per un sogno
che vuole fiorire e ha nome libertà.
Di un simile passato non resta che cenere
dove di notte disegniamo libere bandiere.
Sepolto sotto ruggine d’armi e d’odio
è conto aperto il sangue versato,
costretto a tacere con la rabbia in pugno
trova nella mia bocca il fiato della ribellione,
mentre brucia il rimorso di non aver osato tutto
rinnegando così giuramenti d’altri tempi
e le azioni più belle del futuro.
E tu, madre, che sai nei miei occhi il tuo lamento,
non dire che l’alba sempre si presenta,
che la porta apri per il figlio.
In povertà di foglie appaiono gli alberi,
un velo copre la terra che ci diede la vita
e non alita vento sulle insegne straniere.
Negli stretti confini del tempo
è notte fonda sotto il firmamento,
ma dalla parte dove nasce il sole
par levarsi una luce come non fu mai vista,
primavera di libertà che vuol venire ed è inverno.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Pietre della memoria” di Giulio Bernini

 

Condolente, la parola simbolica del Bernini stringe nella pietra tombale dei caduti il senso di nigredo, di smembramento del valore della libertà. Non è esposta la lapide delle morti di guerra al fuoco della memoria e della compassione degli uomini, non sublima, non trasmuta la materia, resta inerte, senza il riscatto di un animato movimento di catarsi, a crocefiggere le madri. È ombra scotomizzata dalla corsa di una coscienza che stoltamente tenta l’affermazione dell’identità sulla negazione dell’alterità. È inverno la guerra all’uomo, senza rinascita in primavera.

Caro amato perduto amore

Caro amato perduto amore, come in un gioco   

a me straniero aprivi le porte della città regina

incantesimo e polvere di secoli.

Fiori dal profumo d’oriente nei giardini negletti,    

aroma di spezie, minareti a indicare il cielo,

colori prodigiosi di cupole sospese e il mistero

che non muore nel silenzio e nell’oblio.

Noi, confusi tra la folla soltanto noi,  

e nella rete velata del mattino       

trovavi la mia mano come per gioco.

Negli occhi di vento irriverente una follia,

lo stesso fremito ci disse della vita,

labbra su labbra vedemmo insieme farsi notte

ascoltando la stessa melodia.             

 

Acqua tra le dita, la giovinezza s’è smarrita,

e in un paese diverso, troppo grigio,

questo debole vento della sera

disfa pigri gomitoli di nebbia

nella torbida luce d’un lampione.

Qui rose non fioriscono d’inverno

e accade che all’eco dei miei passi

risponda l’incanto del tuo nome,

ancora viva Bisanzio nella sua luce azzurra

e l’emozione d’un giorno labbra su labbra,

la mia mano a cercar la tua, come per gioco.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Caro amato perduto amore” di Giulio Bernini

 

Con potenza transizionale, la parola del Bernini ricorda la dimensione del gioco, come lo spazio franco che apre la libertà del luogo indistinto fra l’io e il tu. Il poeta afferra nell’amore l’attimo fremente che rovescia, che rifonde le dicotomie e che annotta il pensiero. Nel tempo, i passi delle parole si fanno eco infinita di un oggetto d’amore e ancora speranza di un gioco d’infinito.

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