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Ivano Baglioni

Al di là dell’illusione…

Illusione, anomala sirena,
non il mare il tuo regno.
Sei la dolce onda della volta celeste,
più intrepida della fantasia
e dei nostri segreti desideri,
un riflesso alato del sole.
Musa per soavi melodie,
leggiadra scultrice di creta informe,
con un setoso pennello
colori tappeti di cineree nubi
in trasparenti arcate colme d’azzurro.
Seducente baiadera,
ammaliati dall’eco del tuo soave canto
che volteggia lieve per nebbiose vie,
trasmutiam sogni in fasci di luce.

Eterea regina dell’universo,
amica delle stelle,
al di là del tuo arcobaleno… solo dolore
e un quotidiano grigio.
A te è appesa la nostra vita.

 

Critica in semiotica estetica della Poesia “Al di là dell’illusione…” di Ivano Baglioni

 

La parola consapevole del Baglioni racconta la parvenza segnica dell’uomo, che vive la dimensione seconda e riflessa dell’illusione, nel divenire dell’essere. Il flusso non rompe il dualismo mimetico per la dimensione precategoriale e irriflessa di verità. I molteplici echi figurali seguono un ritmo di ripetizione analogica, nella tensione ad una meta irraggiungibile. L’illusione è gioco seduttivo, che trasla la verità sempre in figura danzante e lacera l’essere ad una mancanza e al luogo dislocato di un altrove: è luogo erroneo dell’umano nella coscienza del dolore, che dalla profondità acquea inconscia è sospeso all’aerea, sirenica ed alata trascendenza metafisica.

Anima... a metà divisa

Nella terza parte della vita i miei ricordi

profumano di rose e di jacaranda.

 

Rammento Maggio nella verde, natia Sabina

quando mia madre con orgoglio mostrava

il suo roseto, curato con immenso amor

nel lento scandir delle stagioni.

Boccioli pronti ad avvitarsi tra le galassie,

incastonati lungo la recinzione

dell’avita casa,

impreziosivano lo sbrecciato muro

di generazioni silente testimone.

Era il suo orgoglio

e sol con gli occhi e con l’olfatto

goder di tale mirabile visione.

Duri eran quei tempi, quando ancor nell’aria

l’eco polveroso delle bombe

e il pane, impastato da lacrime e sudore.

Un giorno s’accese una speranza,

da pionieri in cerca di fortuna

in un Continente lontano e misterioso.

Prima che il cancello si chiudesse,

le sue mani come ali di farfalla

per la prima volta, tagliarono un bocciolo

che con delicatezza pose nel libro di preghiere.

 

Ancor dopo anni, quasi per magia,

i petali emanano un sottil profumo

che stranamente somiglia

al fior di jacaranda, un albero possente,

il suo massimo fulgore sempre a maggio

in una terra a sud dell’equatore.

Profumo di rose e di jacaranda,

icone di due mondi molto amati

e io tra lor sempre straniero,

la mia anima … a metà divisa.

 

(Vissuto nel Malawi fino ai venti anni.)

Critica in semiotica estetica della Poesia “Anima... a metà divisa” di Ivano Baglioni

 

Delicatissima, la parola del Baglioni narra di dimora familiare e d’esilio d’estraneità al contempo, nel paradosso di una sinestesia avvolgente, che sospinge in due lontani luoghi entrambi d’appartenenza essente. Il profumo della rosa di Sabina sublima la materia oltre il sacrificio, eterna la molteplicità della vita in un luogo di trascendenza unitaria e universale. Il profumo della jacaranda sospinge nel Malawi la speranza, appesa ai grappoli di lilla apicale, di rinascita del sapere. Eppure, il poeta abita entrambi i mondi, in una misteriosa contraddizione ubiquitaria, che mesce con i fiori le terre.

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