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GALLERIA DI OPERE IN POESIA E ARTE CONTEMPORANEA
con Critiche in Semiotica Estetica di Fulvia Minetti
Loretta Stefoni
Nel fitto sottobosco dei pensieri
E mi ritrovo, spaurita e sola,
in questo andare assai lento
tra fogliame fitto di boscaglia.
Un merlo, un'ape e una cicala,
la compagnia che l'orecchio
asserva e piega al suo volere.
È invisa a me la promiscuità
di tanti suoni tutti insieme:
un fischio, un canto ed un ronzio
e non si cheta questa cagnara
a far scempio dell'ombrosa quiete.
Nel fitto sottobosco dei pensieri
c'è sempre un lieve brusio di vita
a rinverdire speranze ed illusioni;
quest'ultime crescono come gramigna
e, con la prepotenza del naufrago
che cerca approdo, si spingono oltre,
oltre l'attesa di un lungo sospiro
e di una lacrima fiduciosa
nel refolo bizzarro che l'asciuga.
Sfugge il tempo, si beffano stagioni,
primavere sfioriscono all'orizzonte,
ma fiati di respiri azzurri s'involano
anche nei cieli oscuri della notte,
dove i fiori innamorati della luna
mostrano le loro odorose corolle
e le ore se ne stanno oziose
a farfugliare con stelle ciarliere
...ne sanno troppe di cose, loro
che accarezzano i sogni della gente
e sfavillano, a iosa, nelle favole dei bimbi.
Critica in semiotica estetica della Poesia “Nel fitto sottobosco dei pensieri” di Loretta Stefoni
Un figurato ascendere in corsa il poetare della Stefoni, dal descensus tormentato al “sottobosco” dell’inconscio, dove la parola si perde nel “brusio di vita” inaudibile al pensiero, per la lotta all’emersione, oltre il dolore, nel “refolo” della coscienza, nella forma diveniente di sopravvissute “illusioni”. Il desiderio un attimo si posa solo nel suono compenetrato della luce stellare nella notte, unione degli opposti nella verità, a cogliere sulla pelle sensibile di sogni e fiabe d’infanzia il principio del sapere.
Oltre i confini della notte
È vespa, è zanzara o falena,
questo ronzio d'insetto
che desta nell'orecchio
un nido d'assonati ricordi?
Un brivido lungo la schiena
fa eco ad un richiamo di voci
perse nel sordo rimbombo
di una valle dove i pensieri
sono prati sempreverdi
ed il respiro del tempo
è caldo vento di Libeccio
a regalare generose piogge.
Si gonfiano fragili argini
e forte s'odono gorgoglii d'acque
in quei chiassosi fiumi
che corrono verso il mare,
laddove, sfacciato,
issa le sue vele il silenzio
ed è sempre e solo la memoria
a farsi chiglia già nell'onda
in un rollio di luna e stelle
che, al mio cuore,
chiede la nostalgia di un nome.
E, nel buio che m'affoga gli occhi,
soltanto l'acuto in si bemolle
di un loquace abbraccio d'alba
dissolverà nella bocca
la voglia matta di te
...di te che sei stato, sei e sarai
la follia dell'approdo,
tra gaudiosi ritornelli di risacca,
in un muto viaggio di labbra
oltre i confini della notte.
Critica in semiotica estetica della Poesia “Oltre i confini della notte” di Loretta Stefoni
Le vorticose e profonde immagini della Stefoni aprono da un brusio brulicante, che stordisce e risucchia la coscienza indietro, risalendo la filogenesi della memoria inconscia, nella vita che precede la parola,
nel suono, nel silenzio, che solo ripete il ritmo degli astri, riflesso della luce e nome, che la colga perduta. Fino a che la musica dell’alba, che l’inconscio della notte sposa alla coscienza del giorno, porti l’amore
del piacere, che si sceglie desiderio, ogni volta nuovo, rinominato dall’emozione d’infinito.
La melopea dell'ora
Cielo e mare, stanotte,
hanno un corpo di luna
che fiata silenzi
in mussole di nuvole
e organze di meduse.
Arpeggiano nel vento
aghi di pini come dita
e memorie d'acqua
lambiscono la riva asciutta
di un fallace approdo.
Echi di fondali si aggiogano
a trasparenze di basse maree
e, tra sabbia e rena,
è un sol tinnire
di conchiglie vuote, serti di corallo
e scheletri bianchi di ricci.
Pullula di audaci sogni
l'aria densa e scura
e, per quanto invano
si maledica quel buiore
che chiude lo sguardo
alle vampe del giorno,
ci si attarda incauti
in un muto dilagare d'ombre
a spigolare grani di ricordi.
E non c'è mano che cerca pelle,
né fiato che si fa voce,
solo la melopea dell'ora
là, dove un vento di terra
regala agli alberi spogli
un'insolita nostalgia di foglie.
Critica in semiotica estetica della Poesia “La melopea dell’ora” di Loretta Stefoni
L’amplesso di corrispondenza al mondo della Stefoni regala la dimensione plurale immaginativa,
che rompe il principio individuationis e invade il confine umano dell’elemento naturale.
L’uomo, fra coscienza ed inconscio, è riflesso lunare e secondo, desiderio di senso ineffabile; eppure l’origine grembale e archetipica lenisce e alimenta le figure di una verità in errore.
Costitutiva eco di profondità invisibili, ricettacolo e mancanza, la sensorialità della poetessa sposa percezione
e ricordo, riconoscendo l’irrappresentabilità dell’inconscio nella meraviglia delle figure-maschere apollinee
delle forme naturali. Tutto a trovare la dimensione residuale alla mutevole e mortale definizione di parola,
nel canto di un’attesa: l’unico atto poietico e transitivo nella sinestesia dei sensi al mondo,
nella nostalgia di completezza perduta.
Il profumo del calicanto
In questa notte di rami spogli,
delle fronde, solo le fantasie
si offrono alla luna
per i suoi giochi di luce
mentre, come lucciole inventate
tra le zolle denudate d'erbe,
s'avventurano le voci.
Sono le nenie del vento
e lo sciabordio dell'ombra,
tra gli scuri semiaperti,
a immillare di fiati il silenzio.
E nel buio la mia alcova,
che di sogni loquaci si fa luogo,
è memoria del tuo dire.
Un giardino arreso al tempo
dove la neve e il ghiaccio
rendono fragile il ricordo
del vermiglio che scolora
tra le spine e gli sterpi secchi.
Schivo quei roseti spenti
rasentando, sonnambula,
bordure gelide di veronica
…allungo il passo nel bianco
e, stordita dal profumo, mi fermo là
dove il saperti essenza dei miei giorni
è fiore di calicanto
che gemma il mio respiro.
Critica in semiotica estetica della Poesia “Il profumo del calicanto” di Loretta Stefoni
Il verso melodico, sospeso e languido della Stefoni è respiro aperto nel dialogo al mondo, sospinto dall’incessante desiderio di coappartenenza. Il paesaggio della parola della poetessa è lunare, teatro di rappresentazione immaginifica, genealogia tesa indietro, alla voce e alla volontà di vita. Il presente è segno, ghiaccio della memoria, che solo scioglie in sinestesia il sole invernale del profumo del calicanto: l’abbraccio della coscienza di un amore sentito, che salva dal tempo la parola poetica al senso.
Sarò filo d'Aquilone
(Autismo: nel cuore di una madre)
Voglio alitare nel tuo vento
e abitare il tuo cielo, figlio.
Sarò filo d'aquilone nella tua mano
e l'azzurro avrà i tuoi occhi
lontano da quel limbo di fiati
che è tenebra di luce.
Afferrerai la coda di una rondine
e del fragore di quelle ali
non avrai paura alcuna.
Ruberai ciliege rosse
alle labbra della primavera;
dell'estate sfiderai il frinire
di messi scapigliate
tra il rosso dei papaveri
e dell'autunno
i girotondi d'api e vespe
tra filari di viti accalorate
dall'oro dei grappoli maturi.
L'inverno non avrà ghiaccio alle fontane,
ma fiori di calicanto tra le dita
a gemmare, del domani, il respiro.
Tra le virgole di un sorriso
metterai il punto a fughe di silenzi.
Ti farò voce e imparerai
a leggere la vita.
Non vagolerai più in bioccoli di nubi,
saltellerai in quadrati di gesso
e giocherai a mosca cieca con la luna.
Il tempo è un fazzoletto di sogni
d'acchiappare al volo
e per te ci sarà un mattino di parole
ove l'albore avrà in volto
l'espressione felice del tuo dire:
«Mamma ti voglio bene!».
Critica in semiotica estetica della Poesia “Sarò filo d’aquilone” di Loretta Stefoni
La parola innata e naturale della Stefoni vuole essere ambiente primario contenitivo, riguardo, che è lo sguardo che risponde, con funzione maieutica, individuativa. Il terrore senza nome e il corpo frammentato dell’autismo si appella alla qualità della natura, demandata di valere quale grembo gestante di un sé totale. Il movimento che segue il principio di piacere, se condiviso nel dialogo del compiacimento, offre lo spazio transizionale di rispecchiamento di sé nell’altro. L’urgenza del bisogno verte così in possibilità simbolica, matrice del processo secondario e lo spazio transizionale si dissolve, fino a scomparire in luogo di un principio di realtà, come altro da sé, da conoscere, da amare.
Dorme la città
Dorme questa città che tace
la diaspora dei passi e dei pensieri.
Assesta le sue ossa stanche
sul nudo assito del suo ieri e sogna.
Sonno, sei tu che, laddove la luce
abdica la sua pretesa del farsi sguardo,
chiudi le ciglia e quieti, imbelle,
l'algore delle iridi accese dai rumori.
Taciti le garrule labbra dei marciapiedi
a slinguazzare strade di periferia,
abile a nascondere la notte magrebina
lesta nel tinnire dei suoi tacchi a spillo
a bottinare, avida, l'ombra dei lampioni.
Eludi, indenne, il prillare dell'aria
tra i cassonetti dei palazzi lungo le vie
dove è rugosa la mano che incespica
e s'imbatte nell'iniquo lascito del sole.
Tu, riposo di quel quotidiano andare
che non s'indigna al tendersi del palmo
tra un improvvisato bivacco di cartoni,
eviti l'impudenza di quel braccio
e il suo farsi inciampo,
restando estraneo nello stare assorto
quale fabbro di fucina
a molare del sognante fiato
lo spigolo acuminato che, l'indomani,
l'alba infigge nell'occhio come trave.
Critica in semiotica estetica della Poesia “Dorme la città” di Loretta Stefoni
Elegante e tagliente, la parola della Stefoni esorta la coscienza dell’identità e il dialogo con l’alterità.
Il torpore dell’incoscienza, che caratterizza l’organizzazione identitaria schizoparanoide di molti cittadini della cultura odierna occidentale, muove la destrutturazione dell’individuo secondo un principio di piacere, lontano dall’oggetto di realtà, a negare e a gettare l’alterità nel rimosso. Il meccanismo di difesa insegue
un vano tentativo di rivendicazione di un’identità propria, nell’atto minante e negante la differenza.
Ma il processo apotropaico ha vita breve: l’inconscio scotomizzato più forte ritorna, ad aggredire dolorosamente la coscienza inevitabile.
L'inganno della luna
C'è una notte che m'aspetta
e, al di là di una foschia intensa,
un appuntamento a stancarmi gli occhi.
Arresa a una stazione distratta
che non sa più far di conto
dei tanti treni ormai passati
bramo miope l'immagine fugace:
quel riflesso che fugge il passo
di chi parte o arriva estraneo
e si fa sciame a ronzarmi intorno.
Sferraglia il pensiero
l'acciaio in fuga dei binari
e nella calca,
che di nuovo m'accerchia e stringe,
una galleria al buio
è il viaggio del mio sguardo
là dove allo stridio della rotaia
è assurdo chiedere le parole di un saluto.
Alza la voce il vento
e un brivido si concede all'illusione,
mentre è l'inganno della luna
a ridarti un volto
anche se non sei nell'ora a farti tempo.
D'inverno si sta nella nebbia
a giocare con le ombre
trafelati da un raggio di luce
in una stagione di bocche chiuse.
Solo l'attesa ha fiati di foglie morte
in un discorso di rami spogli
e quel dolce indugiare assorto
è resurrezione delle labbra.
Critica in semiotica estetica della Poesia “L'inganno della luna” di Loretta Stefoni
Brulicante di luoghi, a trovare tempo oltre il tempo, la parola della Stefoni specchia la condizione riflessa, lunare dell’umano, la dimensione illusoria del segno, che instancabilmente rimanda ad una verità altra ed impossibile, eppure così presente alla sinestesia dei sensi. Il ritmo è secondo, fermo al saluto della perdita il presente è stazione di transito, nell’intenzione di un’attesa al segno di un irrealizzabile ritorno, è l’umano costitutiva distanza e al contempo basciante primavera di un invernale assenza.
Quel silenzio
Mi porto addosso
il tempo lento di quelle parole
che muoiono dentro
e quel silenzio ovunque è compagno
del respiro che si affanna.
Ho attraversato i giorni della rosa
troppo presto sfioriti
e, fitti a celare la vista,
solo rovi all'orizzonte.
Al di là di quegli ispidi rami
ho gettato gli occhi illesi
dal graffio delle spine.
Di albe e tramonti
ho incendiato le pupille
che, come tizzoni di brace,
sono rimaste ad ardere su altari
dove era d'obbligo immolare agnelli.
Ora, di quei fuochi, ben poco resta
se non un po' di fumo
che non schiara e, tra le ciglia,
lo sguardo offusca.
Neanche la notte,
che l'arte di Aracne mi dona
per tessere dei sogni
la fragile tela
appesa alle rovine dei miei anni,
quella nebbia dirada.
Ed è già ieri l'oggi
dove mi aggiro con fare di gazza,
cercando, del sole,
il suo alfabeto di luce.
Critica in semiotica estetica della Poesia “Quel silenzio” di Loretta Stefoni
Naturale ed elettivo, il verso della Stefoni raccoglie tutto il valore indicale della parola al silenzio, mai scisso dalla temporalità, a cercare il ritmo lento, il punto arrendevole del tempo, per trafugare, nel simbolismo delle immagini naturali, una soglia di verità nel divenire corrente. È il rituale che supera lo sguardo, mai chiuso all’orizzonte di una definizione del sapere, rivolto alla conflagrante sinestesia dei sensi, all’oltre di sé, a rubare frammenti preziosi di nuove prospettive.
Quel cinereo respiro
(Talebani a Kabul: una donna racconta...)
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Come un vento di bufera
a soffiare via gli anni
…l'inatteso ritorno
e l'inferno all'improvviso.
Di nuovo ancora quell'antico veto
greve nel farsi tela di sipario
per scendere
sulla femminea pelle.
E solo un'esigua fessura
quell'unico spiraglio
offerto alle pupille
ora che l'alba
è voce di tempesta
e l'ora spina di rovo
che la cornea graffia.
Si resta al chiuso
temendo le ombre
che s'immillano sui muri,
mentre il giorno
si chiude addosso
e sul collo già fiata la notte
che al sole abbacinante
lascia solo sussurri e bisbigli.
È il tempo dell'ira delle pietre
e del chiasso di bastoni e di fruste
per teste da chinare
e schiene da piegare.
Fumiga l'orizzonte,
mentre troppi sogni bruciano
e s'empie la bocca
solo di quel cinereo respiro.
Critica in semiotica estetica della Poesia “Quel cinereo respiro” di Loretta Stefoni
Vivida, la parola in sinestesia della Stefoni inscena e getta i sensi del lettore allo stato di negazione, che l’identità arrogante impone all’alterità in un mendace e atroce tentativo di affermazione impossibile e autoannientante per definizione. La poetessa si conduole di un tempo che divora: nel nichilismo è caduto il senso per rinuncia alla verità. La scissione, la disarmonia dell’uomo all’uomo e al mondo è la cenere dell’anima universale, l’amara speranza di un nuovo principio.
Odore di lavanda e gelsomino
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Uno sguardo s'inciela
e un respiro ti cerca...
Sanno ancora di noi
e di quelle nostre ore ciarliere
le stanze offerte all'aere in questa casa che più non ti aspetta.
Rapido il vento s'intrufola
e un acceso fiorame di memorie
l'olfatto di lusinghe ovunque inebria.
L'odore di lavanda e gelsomino
smuove lieve l'orecchio che bivacca
in quei verdi aulenti dei muschi
dai nostri passi ancora accalorati.
E mano nella mano
i ricordi improvvisi ritornano,
come tralci di vite s'attorcigliano
nella vigna animata dall'oro
dei grappoli loquaci
d'api, vespe e calabroni.
Assorda il murmure di quei ronzii
mentre l'argento tra i fulvi capelli
tace, o madre, quel tuo lontano addio
e ai garruli giochi dell'ombra,
quando il sole sbircia i pampini,
del tuo volto s'accendono gli occhi
lasciati a quell'alfabeto di luce
mellifluo nel farsi parola
e, del tuo fiato, voce.
Critica in semiotica estetica della Poesia “Odore di lavanda e gelsomino” di Loretta Stefoni
Melodica e allitterante, la parola sensoriale e alchemica della Stefoni è accesa sinestesia, a rendere finanche udibile l’inaudito della presenza materna. Nel chiasmo profondo fra mirato e mirante, la poetessa apre un dialogo diretto ed essente con il grembo della natura, che sa restituire con dolcezza di miele, nell’infinità, il perduto. L’apis mellifera è il movimento della metafora, la messa in opera della verità, la perpetuazione del soggetto nella relazione.