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Lucia D’Abarno

Il vento

Che meraviglia quel bisticcio

tra lui e le fronde degli alberi,

protese in alto

si difendono

dai morsi e dalle parole del vento

scompigliandosi nei miei capelli,

in quelle passeggiate con te vicino

rincalcati in noi stessi

ad ascoltarlo in silenzio.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Il vento” di Lucia D’Abarno

 

Trascorre tutta d’un fiato la parola semplice e intensamente simbolica della D’Abarno, sospinta dall’alito dell’espressione, che sempre nasce dall’essenza di sé alla natura. Le fronde degli alberi e i capelli

si scuotono insieme della ventosa forza indomabile e belligerante, che induce al divenire della coscienza,

al morso della pulsione all’essere, che esprime esistenza al movimento delle forme.

L’inaspettato abbattimento dell’inconscio sulla coscienza minaccia lo sradicamento dell’identità,

così più forte l’albero e l’uomo rinsaldano la stasi profonda e radicata dell’ascolto silenzioso del silenzio, dell’emersione essente della verità.

La ballata ai tempi della fame

Per sopravvivere,
quando si poteva,
si ballava.
Il tempo della fame
aveva bussato,
la guerra presentava
la sua ferocia.
Bastava alzarsi prima
per calzare le stesse scarpe,
indossare l'unico vestito
e presenziare alla messa,
i ragazzi erano tutti lì.
La fame, unica costante,
non aveva oscurato
la giovinezza.
Si può amare anche nell'oscurità.
Sentirsi persa per un bacio
dato furtivamente.
Salutarsi con un cenno
sfiorando i capelli,
nessuno doveva capire.
Quando si poteva,
si ballava ai tempi della fame.

Critica in semiotica estetica della Poesia “La ballata ai tempi della fame” di Lucia D’Abarno

 

Franca e narrante, la parola della D’Abarno si fa ardente custode del valore della vita, della sua forza latente e antitetica, dello sconvolgente potere configurante dell’atto rituale dell’uomo alla rifondazione del senso esistenziale. Se la fame morde la finitudine, dell’umano è l’investimento proiettivo psicofisico plurale della danza e della festa e la comunanza all’alterità è subito sintesi dell’io, che satolla con l’eros il vuoto della pienezza perduta.

UNA LINEA IDEALE

Ho disegnato una linea ideale,
non posseggo il timone
di quel percorso invisibile
che a poco a poco
districandosi
tra le colline
sconfina nei valichi sconosciuti
dove stupore e malinconia
sfiorano gli amari colori
di un sorriso esploso nell’universo.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Una linea ideale” di Lucia D’Abarno

 

Una sinestesia fusionale del luogo umano alla natura è la parola pittorica della D’Abarno, a mescere i colori del cielo a quelli di un sorriso, stretti insieme da un sentore di meraviglia ineffabile e dissolti nel sapore di un ricordo immemoriale dell’origine, custode della sintesi di ogni dualismo che supera l’opposizione antitetica della coscienza.

Notturno

Calme acque distese tra i canneti:

silenzio e fruscio di foglie.

La grande luna s’affaccia

specchiandosi al suo regno palustre.

Graziosa la raganella

gracidando sogna

il salto nel plenilunio.

In confidenza

narra la sua storia,

d’esser nata

“nana rana rara”.

Nel gracidio saluta la notte,

in un sol tonfo scompare,

papaveri e spighe

danzano col vento.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Notturno” di Lucia D’Abarno

 

La parola notturna della D’Abarno si affida alla magia dondolante, per il salto dalla dimensione seconda della riflessione al luogo irriflesso di verità. A lenire l’assenza nella presenza, il suono cullante è rituale apotropaico che rifonde gli opposti. L’umano è ritmo di un accento, il movimento in canto orfico di una recisione, nella trasfigurazione al luogo senza tempo.

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