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Massimiliano Contu

Stagioni

Rosa canina, vento di primavera,
il cielo s'ammanta di lapislazzuli
e monta una terra tinta di smeraldi,
dove l'uomo corre sfidando la sorte
tra le promesse chiuse nei boccioli.

​

Labbra sapor di mora, sole d'estate,
le nuvole d'argento si trasfigurano
in cascate raggianti sui campi d'oro,
là dove l'uomo vi coglie il seminato
e monda dalla pula il sudato frutto.

​

Riccio di castagna, foglie d'autunno,
il tramonto accende la vigna in cui
la vendemmia è già ricordo che passa,
ma ricco è l'uomo che ha ben vissuto
godendo degli anni ormai alle spalle.

​

Albero spettrale, gelo dell'inverno,
la neve copre e addormenta la terra
che attende però al proprio risveglio,
invece stolto è l'uomo che vive cieco
a questa che è la sua ultima stagione.

​

Notte eterna senza stelle,
sogna anima quel che perdesti
ma piangi quel che mai avesti davvero.

 

Critica in semiotica estetica della Poesia “Stagioni” di Massimiliano Contu

 

Intima, la parola del Contu presenta le stagioni, letteralmente in qualità di stanze seminate dell’anima: dal fiorire primaverile di libertà, che supera la necessità, all’estate aurea di conoscenza, all’arricchimento realizzativo autunnale, all’invernale latenza d’attesa, che vince la morte nell’abbraccio al continuo sussistere accadente della natura, al grembo indifferenziato di perpetuazione. Il poeta invita oltre la materia, all’eternità dell’uomo, che risolve alla potenza essente e iemale del silenzio e del senso, al ritorno alla pienezza, che reintegra ogni perduto.

Quel che si lascia

Per prati e boschi frondosi,

nei campi di grano dorato,

tra filari di uva matura

vo ricercando il tuo sorriso.

 

Sulla spiaggia deserta,

ove anche il mare si frange,

cammino innanzi a piedi nudi

e le mie lacrime si mischiano

nel vento agli spruzzi di sale

quando ricordo il tuo abbraccio

- dolce morsa d'illusione,

fiducia in giorni lieti futuri

nei quali il bene vinceva

il male del presente. -

Ah, memoria di fiamma!

...e mi par ancor d'udire

nel mormorio dell'onde

la tua voce turbata

nel darmi l'ultimo addio

- pietà di me,

di me che sopravvissi

a quell'istante. -

Io vado, grave di cotanto,

e sulla sabbia cammino,

ma pur l'orme che lascio dietro me

son inghiottite dal mare.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Quel che si lascia” di Massimiliano Contu

 

Triste, la parola del Contu chiede alla natura di rompere il silenzio chiuso e intatto dell’assenza del destinatario d’amore in un sorriso e affida all’abbraccio delle acque, erotto il proprio pianto al pianto del mare. La catarsi universale, per sublimazione, rifonde e reintegra il dolore, pur non lava via l’oggetto con le orme della memoria.

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