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Michele Rizzo

Al Tevere

All'appressarsi del vento 
Al volto umano stanco
Sfaldato dall'ora che vien meno 
Tra il sospirar soave degli amanti 
Che guardando le stelle vanno via 
In sogni lati di ampie coltrici
Di fuoco intenso senza acido bevuto 
Anonimo fra genti senza viso
Scorgo le acque tue giocar col tempo 
O Tevere mio solo amico a Roma
E col corpo ristò contr' al muro
E col pensiero indugio in su la sera opaca 
E riluce ai miei occhi l’antica virtù
Di tanti prodi caduti per averti sempre 
E vedo il Mantovan lasciar sue terre
E venire da te per cantarti padre 
Ma di tanti figli antichi
Qual mai fu che in te non vide 
Il prodigo suo bene
E non ristette in preghiera in su le rive 
Tacito ascoltando il rovinio dell'onda 
Raminga e pietosa tra gli oppressi argini? 
Or di tanto amore ho rimorso
Di tanta pietà di tanto pianto vano
Di tanto stupore impresso su queste pietre 
Palpate scardinate tolte all'onore
Ho rimorso
Ma non mi fingo nemici per pietà
E niente rubo al tempo che sé stesso 
Avanza e disadorna
Io miro al cuore
A questo cuore che ad ogni ora incerta 
Fugge lo stato che lo rese vile
D'infinito vestendo il tragico momento

Critica in semiotica estetica della Poesia “Al Tevere” di Michele Rizzo

 

Continua e sciabordante, la parola del Rizzo rifonde lentamente la vita alle acque del Tevere, emblema dell’eternità del divenire. La finitudine delle membra si lascia all’opacità, all’incertezza, all’anonimia del buio, nell’attimo in cui l’essenza della notte supera la linearità fugace e approssima all’altra notte, a trasmutare in catarsi, da vile ad infinito, il valore tragico del sentimento.

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