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Stefano Baldinu

Milonga

Solo noi due al centro della piazza

solo due cuori illegali al centro della notte

a condividere una furtiva milonga.

Disperata immensità

questo silenzio che è un pensiero triste

che si deve o che si dovrà ballare

che passo è questo tuo rosso avanzare

questo tuo principiare una danza

che mi corteggia il respiro

ormai buono per imitare i rintocchi

di una pendola.

Non so trovare altro nel mio sguardo

se non questo mio antico gioco ricorrente

di ammiccarti la guancia, inarcarti la schiena.

Quale lucida illusione abbiamo desiderato

crearci con questa strascicata musica

del tuo braccio che avvolge e seduce

il mio che si incatena al tuo fianco

quale altro universo abbiamo vissuto

se tu distante una spalla come luna

ruoti intorno a me, al tuo asse

se tu come ruota di un mulino raccogli

acqua e la trattieni divertita

in attesa che l'alba in segno di resa

sulle dita la tenga sospesa.

Spensierata intimità solo per noi

questa fisarmonica senza voce apparente

stessa pupilla di due occhi differenti.

Quale divieto abbiamo infranto

quali valve abbiamo oltrepassato

per abitare la stessa conchiglia.

Solo noi, due punti cardinali opposti

nella stessa piazza

due sbuffi di vento contrari dentro la stessa notte

questa notte d'acqua che scorre

questa notte di rosa ferma al centro delle labbra

Critica in semiotica estetica della Poesia “Milonga” di Stefano Baldinu

 

La poesia del Baldinu dispone al rito della danza notturna, alla rottura della norma sociale nell’attingimento alle pulsioni naturali della vita diretta, erotica, anonima, estatica, per il senso.

L’individuo smarrisce il principio individuationis e abbraccia nostalgica la memoria inconscia del vissuto d’infinito, sempre in fusione al duale opposto. Solo da una dimensione fuori del tempo si può riscrivere

nel ritmo, come primo ripetere e soglia della parola: il presente è segno ritmato del ritorno, cosmogonia e forza elementare, in sinestesia dal caos dell’amore.

Il figlio velato

Ora che sono qui con il sussulto delle mie scapole
genuflesso sul tuo silenzio
come la nuca di un seme di pioggia
sul pendio del temporale,
hijab di foglie che si lascia andare
assaggiando la clemenza dell’aria
vorrei riscrivere il mio essere madre,
adattare la combustione smagliata delle palpebre
al sonno delle tue labbra
sfiorare ancora, come allora, i confini incerti
della tua pronuncia prima che l’ustione del cielo
piova senza respiro sul palmo di un apostrofo di rugiada.
Hanno detto che le onde portavano l’impronta del buio,
lo spicco sudato dei fiori di legno a scolpirti la fronte
e tu disteso come la quiete della luce nel lampo
nutrivi la sabbia di sale e pietà
mentre l’impazienza del vento rivestiva il tuo corpo
dei contorni di un’alba senza ciglia né parole
e di tutte le gradazioni intatte dell’azzurro.
E così sono qui ad un soffio dal respiro che disegna
un orizzonte di grafite sulla longitudine del tuo nome
e una benedizione pulita di brezze
a tracciare un rammendo di pietre miliari indicandoti il paradiso.
E così maledico l’afasia dei miei occhi
che non sanno cedere all’assedio delle lacrime.
Vedi, non ho che carezze sdrucite da gesti che franano, decisi,
dal sentiero ghiaioso del labbro al palato; vi passo leggerissima
come la mano tentennante di una corolla sulla gota di un filo d’erba
ad imitare la tua che mi sfoglia il grembo scarno fino all’ultima pagina.
Ricomincio così aggrappata al di qua di questo attimo infinito,
al naufragio dei lineamenti del mio volto nel tuo
mentre vado adagiando questo velo di quiete sul tuo riposo eterno
e sul sorriso che rifletterai sulle acque limpide del volto dell’Eterno.

 

(lamento di madre in memoria di KR46M0, bambino perito nel naufragio di Cutro)

Critica in semiotica estetica della Poesia “Il figlio velato” di Stefano Baldinu

 

Opima e indomita, la parola del Baldinu, con alchimia sapienziale, è un coacervo inarrestabile di sinestesie, che l’inaudito dolore materno, per la perdita del figlio, sublima in sacertà divina. La finitudine del confine identitario si fa infinita libertà anonima, nella consustanziazione unitaria dello strazio e dell’orrore del molteplice, alla catarsi della connaturazione al grembo materno, al grembo naturale, al grembo d’eterno.

Non volevo far parte del suo buio

I mattini ancora acerbi d’inverno
sono fotografie di cieli in bianco e nero
rovesciati sul sonno, luccichii sommessi
di ruscelli di stagnola dentro orizzonti di carta pesta,
due lampioni a succhiare la dolcezza del buio,
rammendi d’aria sui volti dei ponteggi
ed io che mi preparavo per andare a scuola
stretta nel mio grembiule per mano allo zaino,
il cuore di pastello e grafite aperto come un astuccio
in quella casa che sapeva di presepe
e calze zuccherate di Befana.
Dicevano che la mamma, a volte,
viveva di istanti che correvano
come sulle montagne russe
che i suoi pensieri erano giostre
dalle quali scendeva raramente
e solo per venirmi incontro
con il suo abbraccio fragile di piume e mare.
Anche quel giorno quando mi prese per mano
fino al nono piano del palazzo e ferma
sul ciglio del vuoto sembrava l’ombra di un angelo
di carta carbone a ricopiare il dettato di tutti i silenzi.
E poi ricordo una discesa rapida, interminabile
come una corsa a perdifiato di vento
quando liscia il crinale delle dune
con ali troppo piccole per guadagnarsi un volo
o qualche metro di paradiso
e il cuore a scoppiarmi nel petto come
dopo un volo rasente su di un mosaico d’erba e rugiada.
Così gennaio si stracciava sui teli delle impalcature
come la carta di un regalo aperta da una fretta di mani.
È rimasta sul selciato la scintilla di un giorno mai acceso,
la mia testolina di passero sottratto al suo azzurro
e quella domanda senza alcuna risposta: “Perché lo hai fatto, mamma?”.
Io non volevo far parte del suo buio.

​

(a Wendi, bambina di 6 anni morta a Ravenna a seguito di una caduta 
dal nono piano di un palazzo causata dalla madre suicida)

 

Critica in semiotica estetica della Poesia “Non volevo far parte del suo buio” di Stefano Baldinu

 

La parola opima del Baldinu è un insieme corrente e ininterrotto di metafore, quali maschere di un dolore ineffabile senza catarsi, un dolore a domanda aperta, senza risposta. I sensi leniti e vessati dalle sinestesie volgono al divenire rapido della figurazione quale sintomo ballerino a contenere l’incontenibile verità diretta alla coscienza.

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