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Stefano Zangheri

come foglia

soffusamente rimango nel pensiero

nuvola di ricordo

tempo portato sulle mani

oltre i suoi giorni

di là dall’altra sponda

immensamente il mare

occlude l’apertura della notte

verso lidi di sogni

in un trasporto che scivola

immaginarie teorie di sensazioni

belle che adesso

siete cose belle

senza pensiero di domani inutili

fermate alla sbarra

questa inconscia voglia

come lontana immagine

che non vuol distrarre

occhi sbarrati al vento

che incrosta di granelli le pupille

io sono debole

e mi rivolto nella giovinezza

che qualcuno ha vissuto

nel senso dell’amore che provavo

forte simbiosi

forte penetrazione

di modi fatti per non esser veri

a un occidente fatuo

a un oriente sperato

distesi adesso in una voce

come foglia vecchia

che scricchiola

strusciandosi vogliosa sul sentiero

Critica in semiotica estetica della Poesia “come foglia” di Stefano Zangheri

 

Il desiderio zangheriano soffonde l’essere nella natura, un essere sensoriale, che tocca la temporalità e tende al passato e alla sua dimensione immemoriale, in uno stato d’inappagatezza e d’inquietudine, che costringe a un moto perpetuo ininterrotto. È trasporto che l’essere eccede, negli istanti fuggevoli ed effimeri di presente eterno ed assoluto, che sono semplici immagini di bellezza e di meraviglia. L’indefinita dimensione primaria e archetipica richiama e condanna il poeta al riconoscimento del medesimo e primo, nel divenire della differenza, e sempre entro un’angoscia di allontanamento e d’impotenza alla soddisfazione. Il vissuto umano di contraddizione fra distacco e attaccamento sospinge l’autore ad una estraneazione da sé, in una morte da se stesso per nostalgia, tanto il dolore della bramosia del ritorno. L’amore è al poeta ricerca, errore, rimando e nuova illusione caduca di coscienza. La verità umana è in errore, è sempre immagine di verità, che impone un montaliano male di vivere, un breve transito nelle spoglie di un insoluto desiderio.

Kamaloka

partiremo lontani

quando vicino

sarà il giorno

muti

nel sogno

che ha scordato

le notti

nello sguardo di chi

saremo allora gocce

Critica in semiotica estetica della Poesia “Kamaloka” di Stefano Zangheri

 

La parola distillata dello Zangheri è intaglio di preziosi universali a serbare, a perpetuare vita, oltre la dipartita dall’incertezza della forma, alla metamorfosi di sé nella commozione dell’altro. Il parlante non possiede la verità, eppure la verità è fra le parole, al silenzio donato, al possibile ancora, al luogo di eccedenza dell’umano, nel gadameriano “andando in certo modo al di là di noi stessi”: è ciò che parla con voce inestinguibile e ciò che è capace di acquisire un presente sempre nuovo. L’ufficio dell’arte poetica è “halten der Nähe”, mantenere la vicinanza, dar corpo, sostanza allo scorrere, alla caducità: l’attestazione della verità ontica del nostro esserci. Il viaggio ermeneutico del poeta è all’eterno, alla “fusione degli orizzonti” dello sguardo.

spazio proiettivo

addormentare lo schiocco

della vita

e riposare il tempo

nell’immenso silenzio

di un vagito

Critica in semiotica estetica della Poesia “spazio proiettivo” di Stefano Zangheri

 

La parola transitante dello Zangheri segna la soglia esistenziale dell’uomo nella natura costitutiva del ritmo, del movimento binario in battere e levare. Il suono battente è presenza precategoriale e irriflessa al mondo della vita, l’alzata è il momento secondo della rappresentazione: eco di un’origine mai presente in sé. La conoscenza è sempre un segno che rimanda all’inconoscibile. Il soggetto è a distanza metafisica: è kìnesis, movimento, riconoscimento e aver da essere in tensione. Si perde l’eden del contenimento primario del grembo materno e si è nel clangore dello strepito che ricuce, nella proiezione psicoaffettiva dello spazio, al suo ricordo immemoriale.

dìdimo

rimane estraneo il gioco della luce

di un’alba per dispetto

parallelo di ghiaccio di un ricordo

dell’attimo più caldo della vita

in un senso di noia

di stupore di occhi addormentati

dove il silenzio è ascolto

di una speciale incognita d’amore

in questo tempo

di sottili finzioni di paura

nell’immenso stupore di vedere

quanto è distante

il volubile senso di abbandono

all’occasione

all’invito più caro

alla nebbia del sogno più reale

in un mistero

dove fredde stelle di contorno

sono il mondo di luci

di una folle idea di perfezione

in una fede oscura

immobile agli sguardi

delle risposte che non hanno fede

e una voce dilegua da lontano

quello che non esiste nel pensiero

ma sente il verso di un amore

che cerca un universo da adottare

gridando in sogno

quelle parole che non ha compreso

ma ha vissuto

nel doppio di una vita sconosciuta

Critica in semiotica estetica della Poesia “dìdimo” di Stefano Zangheri

 

La deriva del verso aperto, continuo e tornante dello Zangheri sospinge al largo della vita, sulla corrente della rêverie, all’abbandono al magnetismo, per la sintesi insolvibile alla dimensione umbratile e gemellare. La noia è umano costitutivo essere in odio della messa in scena della forma segnica, come distanza e ripetizione analogica di estraneità in divenire, ufficio della parola, eppure unica condizione di accesso allo stupore irripetibile del silenzio, per l’oggetto irriflesso della vita. Unica fede dell’uomo è la domanda d’amore, ciò che letteralmente lega al senso e partorisce l’universo.

risacca

questa sublime voglia di dormire

questo accordo di luce

suonato da un violino nella mente

cullato da un affetto

che porta lentamente alla scogliera

scintillio d’onda

quando la luna ama

muovendo le sue forme sopra il mare

ed un sospiro lento

allarga lentamente le sue labbra

lucida frenesia

sommessa voglia di confondersi

con l’assurdo che viene

abbracciato al brivido che gode

un attimo di anni

incoscienza celata alla paura

faro inutile

per il naufragio immerso nella notte

vorrei dire torniamo

ma poi

uno scoglio si arretra

un’onda muove il volto trasparente

un cielo sconosciuto

sublima lentamente l’abbandono

Critica in semiotica estetica della Poesia “risacca” di Stefano Zangheri

 

Onirica e abissale, la parola continua dello Zangheri lascia profondare lentamente la rêverie immaginante all’elemento acqueo dell’inconscio, che apre i confini della parola al suono, all’abbandono del tono muscolare, all’emozione estesa della sinestesia dei sensi, che risucchia indietro la memoria all’immemoriale. E dal movimento riflesso di una luna-Afrodite sulla superficie che declina e differisce, si rivela il marino grembo oscuro di un’Ecate abissale, il nero chasma, la gola che naufraga il desiderio della vita e consegna al piacere nel destino di morte. Il coraggio del poeta di sospinge in questa discesa iniziatica, volta ad una paradigmatica rinascita trasfigurata.

in vena

ho inutilmente acceso di parole

questa vita

seduto ai madonnini

di quei sentieri che non mi ricordo

o erano valichi

tra le montagne che non ho scalato

in questo torbido rimpianto

esagerato in quella fede persa

all’inizio

quando l’amore della non madre

affilava l’affetto

come lamina per cercare dentro

mi sono pianto

mi sono disperato

ho disperso i momenti di piacere

ogni mattina

mi sono alzato ad incontrare l’alba

nudo d’orgoglio

come un amante pronto e rifiutato

e poi le ore

che comunque hanno fatto un’esistenza

perle di una collana

perdute lentamente una ad una

finché il respiro ha sibilato al vento

Critica in semiotica estetica della Poesia “in vena” di Stefano Zangheri

 

Liquida e dolente, la parola malinconica dello Zangheri è vena, vaso, via, inclinazione dell’intimo trasporto che riconduce al cuore. Ed è al cuore della provenienza che conduce la destinazione umana, al ritorno prenatale all’abbraccio consustanziale alla madre, al sinolo di una continuità inscindibile, in assenza della dimensione oggettuale, alla percezione di un sé infinito, di una soggettività totale. L’uomo è questa speranza disperata: non v’è parola che possa questa continuità, non v’è preghiera alla Madonna, né affetto di donna che possa restituire il paradiso perduto, di questo solamente ritrova l’ultimo respiro, che stesso si mesce al grembo del vento.

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