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GALLERIA DI OPERE IN POESIA E ARTE CONTEMPORANEA
con Critiche in Semiotica Estetica di Fulvia Minetti
Umberto Druschovic
Velario di stelle
Ricordi? Le sere sul muretto
ad ascoltare delle rondini il garrire
spensierato, a seguirne il volo allegro
nella luce del tramonto mentre, intorno a noi,
fra cuscini di pervinca e rosmarino in fiore,
saliva forte l’umore dell’estate,
il frinire incessante delle cicale,
il profumo acre dell’erba tagliata
e l’incanto inaspettato
delle lucciole avvinghiate ai muri.
Se ne andavano così le nostre estati
a sognare il mare, mentre tu intrecciavi serti
di edera e speranza, aspettando il buio
e l’apparire lento del velario di stelle
che ad agosto hanno luce corusca
e, leggiadre, fanno giochi di bambine
Che sarà di noi tra una vita,
mi chiedevi, e fantasticavi sul nostro domani,
immaginavi l’andare dei giorni
in un tempo che, allora, appariva lontano.
Siamo rimasti qui, ora, ad inseguire
i sogni, oggi come ieri, in un futuro che già è andato,
ma ci basta guardare il volo dei rondoni
anelando come loro ad una terra d’oltre
ora che di lucciole
non scorgiamo più il bagliore
e delle voci del mondo ascoltiamo soltanto
il canto umile dei grilli e, nascosto nel vilucchio,
un rosario di cicale.
Critica in semiotica estetica della Poesia “Velario di stelle” di Umberto Druschovic
La parola intima, delicata e sacrale del Druschovic cerimonia l’umano in transito, fra attesa inesausta e sogno d’infinito che allarga il tempo, deluso dall’inganno dei ruoli e delle sovrastrutture vuote del vivere sociale, padrone unicamente dei propri sensi aperti alla natura, ad interloquire con la verità al canto
delle cicale, che l’istante dilatano all’eterno della partecipazione e della divina celebrazione dell’essere al tutto unico della vita.
Forse gli uccelli sanno
C’è come un velo, leggero,
disteso sui campi
nei giorni, muti, d’autunno.
È un languire dell’aria,
un’attesa, un’agonia silenziosa
come di passero ferito
o di farfalla che lentamente muore.
Le zolle, denudate, violentate
dall’erpice in estate
pudìche si coprono un poco
di foglie e di stoppie
qua e là sparse e abbandonate.
Paiono bocche, in numero infinito,
aperte, spalancate al cielo
in atto di fede e di abbandono.
Sarà la brina a umiliare la terra
e zittirne il canto, e un avvento di neve
stenderà, pietoso, il suo mantello.
Forse gli uccelli sanno
di un’altra primavera, ma tacciono
intanto che laggiù rabbuia l’orizzonte
e uno spiraglio di luce, ancora,
s’apparta ad occidente e muore.
Critica in semiotica estetica della Poesia “Forse gli uccelli sanno” di Umberto Druschovic
Melodica, la parola del Druschovic segue elegante le volute del declino autunnale e dell’uomo accompagna il tramonto con la stagione, derubato dall’erpice rettilineo e impietoso del tempo, apre la parola alle bocche della terra, in una delusa tensione alla verità. Umile humus terreno è l’uomo che riconosce la propria insipiente ignoranza per rispetto alla grandezza della sapienza naturale e divina e approda alla resa della coscienza, che sa della necessità invernale di una morte nel silenzio, per poter nuova rifiorire in primavera.