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Valerio Di Paolo

A mia madre

Ora te ne stai lì, con un chiodo fitto nell’assenza.
Sorda, ali dolenti in grembo e gli occhi altrove.
Brancoli a volte come una rondine stordita
cercando in terra un cielo che non c’è.
Rimani lì, nella stazione di ogni giorno…
passano i tuoi sogni e mai nessuno scende.
Solo, sulla banchina opposta, un uomo senza volto
ti rammenta il peso delle ombre.

Ma io ti vedo ancora
dalle finestre spalancate al giorno guardarmi ridente in viso
come solo fanno i girasoli,
e nemmeno nei giorni bui dalle finestre chiuse
hai messo misura alle tue ali.
Ti ricordo regina con canovaccio e conca
guardare solo avanti
mentre piccoli paggi reggevano impazienti
lo strascico di una vestaglietta sdrucita
ma di colori piena.
I sogni della farina cullavi nelle mani
e nei risvegli il pane era pane e il giorno, un giorno
…e quelle infinite estati che celavano sorrisi
nelle fette fresche di un cocomero tagliato…
Ora vorresti solo che dall’ultimo tuo sogno,
impolverate, nell’azzurro di una vecchia tuta,
scendessero leggere le sue mani
a farsi focolare delle tue
narrandoti di nuovo la bella fiaba che sei stata.
Forse il tempo per raccontarla sarà poco,
un infinito non basterà, ne serviranno due.

Quando infine indosserai le scarpe nuove,
quelle con cui nessuno torna,
io terrò in tasca il filo reciso a un aquilone
e avrò negli occhi amati
i colori antichi di una rondine volata.

 

Critica in semiotica estetica della Poesia “A mia madre” di Valerio Di Paolo

 

Tanto più semplice quanto più assoluta è la sinestesia intensa della parola franca del Di Paolo, a superare lo spazio dei confini fisici e il tempo della finitudine, a reintegrare la parte scissa e rimossa delle ombre. Dalla condizione segnica di assenza e di rimando, il poeta accompagna al solvimento della nigredo, all’accoglienza nei palmi del focolare dell’amore, athanor che trasfigura e sublima la materia. È l’eterno ritorno della rinascita al senso, custodito dagli occhi amati, investiti dalla magia in chiasmo del filo di riguardo materno irrecidibile, per un’anima unica.

24 febbraio 2023
(Ucraina un anno di guerra)

…e va avanti e va indietro la spola...

sull'ordito del tempo c'è la madre che aspetta.

E va avanti e va indietro la spola

sta tessendo da secoli lo stesso sudario

al soldato che torna.

 

Passi sordi di un figlio partito

scaveranno soltanto un concavo muto

sulla soglia di casa.

 

…e va avanti e va indietro la falce

come i versi di un’ode alla guerra

scava fosse per vite mancate

e rimangono muti

troppi passi che non tornano più.

 

Vuoti d'aria nel grembo di madri impazzite

fanno eco allo strazio

allo stesso dolore dei capelli strappati

sull'altro lato del muro.

Torneranno solo ombre di croci,

a perdita d'occhio 

dove tacciono i soldati dei “giusti”,

dove tacciono con lo stesso silenzio

i soldati “sbagliati”.

 

In ginocchio sul marmo

la croce la porta la madre che resta

la porta fino alla cima più acuta del Golgota

stringendo nel ventre

solo pezzi di un figlio straziato.

 

Resteranno da sole le madri sfinite,

rimarranno mute come madonne di cera

mentre ognuna stringerà sempre sul petto

lo stesso silenzio infinito di un “mai”.

Critica in semiotica estetica della Poesia “24 febbraio 2023 ” di Valerio Di Paolo

 

Di reificante presenza sinestesica è la parola del Di Paolo, a tessere oltre la rappresentazione, alla verità diretta e dolente del sentire, comune e universale. La guerra è orrore senza nome, può indossare solo maschere di vuoti incontenibili. Il sacrificio non ha contesti di giustizia e solo dimostra quanto possa essere presente ferita un’assenza, uno spazio, un silenzio, tanto solido, da poterlo eternamente stringere al seno di madre.

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