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Vittoria Nenzi

Figlia

Figlia,
figlia mia!
Sorgemmo d’Agosto in solitaria alba
calura di lombi dolenti e mani straniere.
Ti nacqui e 
fummo perle di medesima valva
nell’amniotico liquor di tepore.
Stesa sul seno tu avida mi succhiasti,
intonando il canto della vita,
i pori miei effluvio di umori 
copiosi e profumati tracimarono
affogando frustrazioni.
Figlia,
figlia mia! 
Utero in orgasmo consumò l’ultimo spasmo
col respiro che imparammo per andare insieme. 

Ti nacqui poi ancora mille volte, ti destai il sonno,
ti nacqui coi fratelli e coi tuoi figli dilatando il cuore,
ti nacqui nel lutto, nel distacco
quando sola viaggiasti con gli affanni.
Figlia,
figlia mia!
Traspare il raggio tra i tuoi capelli biondi
il vento ne fa anelli ad allacciare i domani,
nuvole silenziose annegano i tuoi cieli,
ma tu non suggi più sapor d’amore.

Riposa la stanchezza sul mio seno
gonfio per te sull’orlo della vita!

Critica in semiotica estetica della Poesia “Figlia” di Vittoria Nenzi

 

Emotivo e invocante il verso della Nenzi chiama, incessante, a nascere la vita.  La generatività della poetessa s’immilla, da quella diretta della filiazione a quella indiretta del significato, per la conquista di vita eterna nel divenire delle forme. Maternità è la meraviglia inesauribile della dedizione dell’essere, in eterno ritorno dall’abbraccio fusionale, dal sinolo della materia inconscia e indistinta dell’amore, alla luce nascente della coscienza condivisa di esistere dall’altro.

…e ora

… e ora che mi ascolto nel silenzio,
che il mio corpo racconta la storia della vita,
ora, figli miei,
trattenete fra le vostre mani quell’essenza,
quell’alito divino
che vi soffiai all’alba di un mattino.
Non temete, figli, volgete gli occhi altrove,
dove il domani appare effimero infinito,
non temete, vi accompagnerò,
se voi vorrete, fino all’ultimo respiro.
Dagli appannati vetri dei miei giorni,
in silenzio vi seguirò inspirando il vagito dell’aurora,
contando i vostri passi uno a uno,
le risate gioiose in novelli campi,
il balbettio di parole e d’alfabeto.
In silenzio, inseguirò i vostri sentieri,
le gioie e sofferenze, la dura scalata dell’adulto.
Rimarrò celata, creature mie,
sommando speranze, sottraendo ansie,
trattenendo in me l’inganno dell’indifferenza,
quell’inganno che mente a se stesso,
per non creare l’idea dell’invadenza.
Non temete, figli, con l’antica gioventù che avanza,
dipingo l’esistenza coi vostri volti,
odo ogni istante le vostre voci, in assonanza con quelle dei vostri figli.
Osservo me stessa fra i rami della quercia, aggrappata all’ultimo ramo,
con le nodose mani ricamo ancora i sogni dei domani.
Tra le parole infilate nelle pieghe del sughero imbevuto del passato,
troverete, un giorno, forse domani,
quel succo di latte e miele, antidoto di mille sorsi di fiele,
fatene uso baciandovi sul viso, sugli occhi,
e sia per voi memoria di sorriso.
… e ora è tardi ho bisogno di riposo,
domani all’alba vi soffierò il mattino.

Critica in semiotica estetica della Poesia “…e ora” di Vittoria Nenzi

 

Nel movimento commosso di umano e di naturale, la parola epistolare della Nenzi è desiderio di perpetuazione, nel dono diretto generazionale e più ancora nel dono indiretto di senso. È invito alla curvatura del tempo, ove l’istante incontra l’eterno, è speranza di verità nel silenzio, è abbraccio panteistico e animistico nella continuità dell’umano al divino. È offerta rituale e sacrificale, in libagioni di latte e siero di linfa melilla, crisma di vita e di catarsi dei lupercali, ai simboli di forze opposte e congiunte, un mercurius e un sulphur, per l’oro alchemico di suprema conoscenza.

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